GIACOMO GARZYA, "MAREE", Napoli 2001, D'Auria Editore.
PRESENTAZIONE DI GIUSEPPE GALASSO

 

Sono paesaggi, "colori del tempo", sensazioni e sentimenti attuali o sedimentati nell'animo e nella mente, riflessioni impressionistiche, notazioni fuggevoli, pensieri a lungo covati e maturati, ricordi di scuola e di vita quelli che ispirano la poesia di Giacomo Garzya. La nota della delicatezza nativa e della sensibilità vivace e umbratile dell'autore traspare ad ogni suo verso. Ma non è una modalità intimistica quella nella quale il verso dichiara e compone la materia del suo poetare. È, piuttosto, il vario e reattivo atteggiarsi di uno spirito inquieto che non si ripiega su se stesso e che non rinuncia mai a vivere nel mondo e col mondo, fra gli altri e con gli altri: uno spirito positivo e fiducioso a malgrado di tutto quanto il mondo, gli altri, la vita possano ispirargli o fargli penosamente sentire in senso contrario. Lo soccorre in ciò la forte componente culturale del suo sentire e del suo pensiero: una componente culturale fatta in gran parte di storia e di storiografia, ma anche di arte e di letteratura, di memorie poetiche e di educazione ed esperienza retorica. Considerato tutto ciò, ci si aspetterebbe di imbattersi in una poesia greve del peso di se stessa, magari un po' presuntuosa nell'esibire le sue varie e colte componenti. I versi di Garzya sono, invece, lievi, scorrono con la naturalezza della spontaneità che li ha dettati anche quando sono densi - e talora troppo densi - di nomi famosi, di tópoi storici e letterari. E questo, prima ancora che alla qualità intrinseca dei suoi versi, e quale che essa possa apparire, più agli uni o meno agli altri pregevole, è dovuto certamente al fatto che la poesia non è stata per Garzya tanto una scelta quanto un bisogno. Egli non ha voluto essere poeta, si è trovato ad esserlo, ed è stato lieto di trovarsi ad esserlo, ne ha tratto consapevolezza e conforto, ne ha ricevuto il dono prezioso di un rapporto nuovo ed autentico con se stesso, con il mondo, con gli altri, e ha ricambiato il dono con una dedizione generosa e fedele. Gli era accaduto lo stesso con la fotografia. E ciò è tanto vero che con la fotografia la sua poesia ha un rapporto profondo. Non direi che sono per lui la stessa cosa, e neppure che il poeta si risolva nel fotografo. Sono due vie del suo percorso umano, che corrono parallele e talora sovrappongono i loro tracciati, ma non cessano per questo di essere I'una fotografica e I'altra poetica. In questo senso l'ultima composizione di Maree, quella intitolata Giacomelli è una buona epigrafe del volume, un congedo significativo del poeta dal lettore, proprio perché, in versi e con parole da poeta, esprime la sentita, partecipe reazione a un ideale di fotografia (la più pura, vi si dice senza esitare). E, forse, proprio qui si svela una virtù superiore della parola (poesia) rispetto all'immagine (fotografia), di cui neppure Garzya è del tutto consapevole, ma che deriva dalla radice più profonda del suo spirito: la radice di una civiltà che nell'umanesimo della parola ha trovato la sua cifra distintiva e la misura ad essa più propria. Se così fosse, la poesia avrebbe segnato l'approdo ultimo, chiarificatore di quel bisogno dal quale, come si è detto, essa appare nata nello spirito di Garzya. In alcune delle liriche di Maree sembra di avvertirlo in modo pregnante: così in Dimenticare, ad esempio; così in Asperità; così in Giochi; così in Autunno e in A un sorriso un dono. L'animus, per così dire, fotografico di Garzya non risente di questa primazia concettuale e poetica della parola, se una tale primazia, come pensiamo, in lui sussiste. È, infatti, un primato fra pari quello, in lui, della parola. Tanto è vero che alle immagini e al dire i suoi versi tendono ad accoppiare in intimo rapporto i suoni. E non perché, o non soltanto perché, di alcune poesie si dice esplicitamente che sono state ispirate da musiche. Piuttosto, perché la musica è per Garzya in profonda interrelazione con le immagini e con la parola; è un'altra dimensione del suo sentire, pensare, vivere il mondo e il proprio rapporto con gli altri. Anche qui, insomma, non una scelta, bensì un modo di essere e di sentire. Non vorremmo, però, neppure minimamente, schiacciare I'umanità e il mondo di Giacomo Garzya sotto il peso di tante riflessioni saccenti, che pure sono state dettate unicamente dalla lettura affettuosa dei suoi versi e dall'antica conoscenza e apprezzamento di lui con cui quella lettura è stata condotta. Tutto poi serve a dire che la poesia non è stata per Garzya semplice evasione o vieto esercizio arcadico, bensì lo sbocco naturale di una personalità in cui sono maturati col tempo, alla pari, esperienze e bisogni. Tutto si riduce, insomma, a dire che, se la poesia ha sempre un ufficio di catarsi del vissuto nel suo bene e nel suo male, nel suo bello e nel suo brutto, questo è vero indubbiamente in modo specifico per il poeta Garzya. Da questo punto di vista non è questione di grande o piccolo poeta. Il mondo di Garzya è semplice, ancorché pensoso; è composto, ancorché vivace. La spontanea levità con cui scorrono i suoi versi, pur evidentemente tanto curati e rifiniti, non ha alcuna tentazione, né la fa avere al lettore, di fingere travagli abissali, invidiosi veri, insospettabili e improbabili profondità. La poesia di Garzya è quale subito appare: naturale e credibile nella sua radice umana e nelle movenze che si è data. Il lettore non deve cercarla negli ascosi penetrali del tempio. La incontra, semplice e affabile, sulla soglia e non ha difficoltà a intrattenersi con essa in fidati, per quanto tenui e sommessi, colloqui.

GIUSEPPE GALASSO



 

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