GIACOMO GARZYA,"POESIE" (1998-2010), con prefazione di LUIGI MASCILLI MIGLIORINI, Napoli 2011, pp.1-456, M. D'Auria Editore, presentato all'Istituto italiano per gli studi filosofici il 12 maggio 2011, da Luigi Mascilli Migliorini,moderatrice Anna Esposito, con una scelta di poesie lette dal Maestro Carlo Forni.

 

MELIORA SILENTIO

Geografie dell'anima, si direbbe con espressione forse abusata di poesie come quelle di Giacomo Garzya che ora possiamo leggere tutte insieme, quasi come se un gigantesco atlante dei sentimenti si distendesse per intero davanti ai nostri occhi e noi fossimo chiamati a fissare su di esso le nostre personalissime bandierine, dopo aver dato -come è doveroso- attenzione alle bandierine già fissate dall'autore della mappa, cogliendo punti comuni di navigazione e di sosta, ma anche dissonanze inattese di orientamento e di approdi.
I luoghi -lo ha osservato già gran parte della critica- giocano, infatti, un ruolo fondamentale nella poesia di Giacomo Garzya. A cominciare dalla ripetuta e mutevole Grecia che viene incontro al lettore nelle prime pagine di questo libro dove -per ragione non intenzionale di cose- la geografia si fa storia e i luoghi diventano memoria. Come accade in Methoni, poesia dell'inizio, nella quale è chiamata a dar conto di sé non solo la Grecia dei miti, ma anche quella delle cronologie più vicine, che allo scontro tra Venezia e il Turco ("Methòni superba/di San Marco/la guardia/a bada tenesti l'offesa/del turco spavaldo"). E non potrebbe essere diversamente se per un attimo il nostro sguardo si insinua a cogliere, dietro le parole di poesia, le parole in prosa, la ricerca e la riflessione critica che in questi stessi hanno occupato Giacomo Garzya, storico della religiosità nel Mezzogiorno moderno. E da storico il Tempo, e il congedo da esso -"E tu/Spyridion/avanti l'antica gola -recitano i versi di Kardamyli- un mondo/che non è/più dispensi/Alito, assenza, brezza/il tamburo del tempo/batte/quello che va"- si piegano insieme al mutamento, giacché illusoria è -mi sembra di poter osservare- anche per il poeta la speranza - quella di Diafani e del suo Kafenenion- che il Tempo possa davvero arrestarsi.
Tempo, dunque, non immobile ma storico. Tempo che scorre, anche se l'Egeo carico di ritorni (ma così dovrebbe pure dirsi del nostro più vicino Mediterraneo, tra le Sirene sorrentine e il Salento, vagando tra le isole che portano il nome fascinoso di Capri, di Ischia, di Procida) sembra, talvolta, capace di negarlo. Così gli uomini stanno -nei versi di Giacomo Garzya- "ciclicamente/offesi a morte/a strappi si cresce". "Cinicamente -prosegue Uomini- offesi a morte/e/temprati/dalle umane miserie/si aspetta/ il verdetto/ del tempo". Convinzione che si ripete nella poesia Autunno dove, a ricalco di versi illustri, torna l'immagine della precaria condizione umana esposta, come tutti sappiamo, al mutare inesorabile delle stagioni e, dunque, "al primo soffio cade".
Il vocabolario di questo Tempo non è fatto di parole dettate da saggezza moderna, ma da una saggezza (si direbbe meglio una sapienza) assai più anonima e antica: "Non sono/i de La Bruyère/ -leggiamo- a sistemare/i precetti/del buon vivere/bensì pelle rugosa/di vecchia devota". Asperità, che è -lo confesso- tra le poesie che ho più amato, riprendendo, quasi, le cadenze della grande tradizione moralistica, epigrammatica, inverte intenzionalmente rapporti e gerarchie, lasciandoci intravedere dietro confortevoli accoglienze, l'autentica durezza delle relazioni in gioco: "Lo spigolo/nel quale spesso/m'imbatto/lo preferirei/di piperno/non di torba/grassa e corrotta".
Se si parte da questo punto; se si assume l'ingannevole verità della dolcezza, allora si spalanca la tragedia muta dove il dolore privato e quello collettivo, toccandosi, non possono che dar ragione al grido che è nei versi di Il ghiaccio e il fuoco: "Il massacro nei Campi fatti di forni/invece, inermi e ignare masse ha colpito/E' stato del tutto insensato/e nessuna giustificazione a ciò/l'uomo,la storia, possono dare".
Sembra quasi che, ad un certo punto, il Nord, "il magico Nord", si rovesci negli orizzonti azzurri del sentimento mediterraneo, li sconvolga e li riveli. Altre geografie dell'anima cui è destinato il compito di fare da contro canto alle immagini troppo rassicuranti, troppo pigre e felici, dell'esordio mediterraneo. La "ricerca del molteplice" (così nella bella A Fanny per i suoi vent'anni) conduce, così, a peripli che sono ritorni in luoghi (Alimuri, la Grecia, ancora le isole del nostro Golfo) di cui sarebbe difficile dire se sono immutati o stravolti, come sarebbe ugualmente difficile dire se i sentimenti che vi presero forma un tempo siano ora, ritornando, gli stessi o ci siano, in qualche modo, inattesi ed estranei. Il divenire è: torna proprio dalla Grecia (Diakofti) una lezione che in queste ripetute navigazioni è talvolta duro, ma sempre necessario apprendere.
E quanto duro sia stato per Giacomo è pudico tacere. Il tempo scorre, sconvolge gli spazi, il dolore disordina gli alfabeti. La parola si fa meno sicura del proprio valore, della sua capacità di suturare ciò che gli anni implacabilmente squarciano. Rimarranno le tue parole?: l'interrogazione si fa vertiginosa quando lambisce il Verbo, così rispondendo "E' fatale che tutto finisca/tu dici, Agnello, della mia anima/anche il sole e gli astri tutti/Nel vortice abissale tutti/nell'elicoide del Palazzo d'Urbino tutti/come in Matteo/con "il cielo e la terra passeranno"/Ma nel dopo rimarranno le Tue parole?/A volte se penso alla storia degli uomini/credo che Tu sia morto invano".
Ma la risposta vera è quella che Giacomo Garzya ritrova sul passo dell'Autoritratto di Salvator Rosa: Aut tace/aut loquere/meliora silentio. "O taci, o dici cose migliori del silenzio": cifra estrema e ragionevole della poetica colta di queste pagine, quasi di un Wittgenstein reso, e arreso poeta.

 

LUIGI MASCILLI MIGLIORINI



 

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