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POESIA E FOTOGRAFIA DI GIACOMO GARZYA

Zakinthos, Navajo, un raro scatto dal mare agitato della celebre e fotografatissima, quasi sempre dall'alto, spiaggia del relitto (foto di Giacomo Garzya, 5 luglio 1996)

 

GIACOMO GARZYA, FRAMMENTI DI MEDITERRANEO

 

GIACOMO GARZYA, "MAREE", Napoli 2001, D'Auria Editore. PRESENTAZIONE DI GIUSEPPE GALASSO


Sono paesaggi, "colori del tempo", sensazioni e sentimenti attuali o sedimentati nell'animo e nella mente, riflessioni impressionistiche, notazioni fuggevoli, pensieri a lungo covati e maturati, ricordi di scuola e di vita quelli che ispirano la poesia di Giacomo Garzya. La nota della delicatezza nativa e della sensibilità vivace e umbratile dell'autore traspare ad ogni suo verso. Ma non è una modalità intimistica quella nella quale il verso dichiara e compone la materia del suo poetare. È, piuttosto, il vario e reattivo atteggiarsi di uno spirito inquieto che non si ripiega su se stesso e che non rinuncia mai a vivere nel mondo e col mondo, fra gli altri e con gli altri: uno spirito positivo e fiducioso a malgrado di tutto quanto il mondo, gli altri, la vita possano ispirargli o fargli penosamente sentire in senso contrario. Lo soccorre in ciò la forte componente culturale del suo sentire e del suo pensiero: una componente culturale fatta in gran parte di storia e di storiografia, ma anche di arte e di letteratura, di memorie poetiche e di educazione ed esperienza retorica. Considerato tutto ciò, ci si aspetterebbe di imbattersi in una poesia greve del peso di se stessa, magari un po' presuntuosa nell'esibire le sue varie e colte componenti. I versi di Garzya sono, invece, lievi, scorrono con la naturalezza della spontaneità che li ha dettati anche quando sono densi - e talora
troppo densi - di nomi famosi, di tópoi storici e letterari. E questo, prima ancora che alla qualità intrinseca dei suoi versi, e quale che essa possa apparire, più agli uni o meno agli altri pregevole, è dovuto certamente al fatto che la poesia non è stata per Garzya tanto una scelta quanto un bisogno. Egli non ha voluto essere poeta, si è trovato ad esserlo, ed è stato lieto di trovarsi ad esserlo, ne ha tratto consapevolezza e conforto, ne ha ricevuto il dono prezioso di un rapporto nuovo ed autentico con se stesso, con il mondo, con gli altri, e ha ricambiato il dono con una dedizione generosa e fedele.
Gli era accaduto lo stesso con la fotografia. E ciò è tanto vero che con la fotografia la sua poesia ha un rapporto profondo. Non direi che sono per lui la stessa cosa, e neppure che il poeta si risolva nel fotografo. Sono due vie del suo percorso umano, che corrono parallele e talora sovrappongono i loro tracciati, ma non cessano per questo di essere I'una fotografica e I'altra poetica. In questo senso l'ultima composizione di Maree, quella intitolata Giacomelli è una buona epigrafe del volume, un congedo significativo del poeta dal lettore, proprio perché, in versi e con parole da poeta, esprime la sentita, partecipe reazione a un ideale di fotografia (la più pura, vi si dice senza esitare). E, forse, proprio qui si svela una virtù superiore della parola (poesia) rispetto all'immagine (fotografia), di cui neppure Garzya è del tutto consapevole, ma che deriva dalla radice più profonda del suo spirito: la radice di una civiltà che nell'umanesimo della parola ha trovato la sua cifra distintiva e la misura ad essa più propria.
Se così fosse, la poesia avrebbe segnato l'approdo ultimo, chiarificatore di quel bisogno dal quale, come si è detto, essa appare nata nello spirito di Garzya. In alcune delle liriche di Maree sembra di avvertirlo in modo pregnante: così in Dimenticare, ad esempio; così in Asperità; così in Giochi; così in Autunno e in A un sorriso un dono.
L'animus, per così dire, fotografico di Garzya non risente di questa primazia concettuale e poetica della parola, se una tale primazia, come pensiamo, in lui sussiste. È, infatti, un primato fra pari quello, in lui, della parola. Tanto è vero che alle immagini e al dire i suoi versi tendono ad accoppiare in intimo rapporto i suoni. E non perché, o non soltanto perché, di alcune poesie si dice esplicitamente che sono state ispirate da musiche. Piuttosto, perché la musica è per Garzya in profonda interrelazione con le immagini e con la parola; è un'altra dimensione del suo sentire, pensare, vivere il mondo e il proprio rapporto con gli altri. Anche qui, insomma, non una scelta, bensì un modo di essere e di sentire.
Non vorremmo, però, neppure minimamente, schiacciare I'umanità e il mondo di Giacomo Garzya sotto il peso di tante riflessioni saccenti, che pure sono state dettate unicamente dalla lettura affettuosa dei suoi versi e dall'antica conoscenza e apprezzamento di lui con cui quella lettura è stata condotta.
Tutto poi serve a dire che la poesia non è stata per Garzya semplice evasione o vieto esercizio arcadico, bensì lo sbocco naturale di una personalità in cui sono maturati col tempo, alla pari, esperienze e bisogni. Tutto si riduce, insomma, a dire che, se la poesia ha sempre un ufficio di catarsi del vissuto nel suo bene e nel suo male, nel suo bello e nel suo brutto, questo è vero indubbiamente in modo specifico per il poeta Garzya.
Da questo punto di vista non è questione di grande o piccolo poeta. Il mondo di Garzya è semplice, ancorché pensoso; è composto, ancorché vivace. La spontanea levità con cui scorrono i suoi versi, pur evidentemente tanto curati e rifiniti, non ha alcuna tentazione, né la fa avere al lettore, di fingere travagli abissali, invidiosi veri, insospettabili e improbabili profondità. La poesia di Garzya è quale subito appare: naturale e credibile nella sua radice umana e nelle movenze che si è data. Il lettore non deve cercarla negli ascosi penetrali del tempio. La incontra, semplice e affabile, sulla soglia e non ha difficoltà a intrattenersi con essa in fidati, per quanto tenui e sommessi, colloqui.

GIUSEPPE GALASSO

 


LUIGI COSTANZO, L'UMANESIMO ARTISTICO DI GIACOMO GARZYA


L'umanesimo artistico di Giacomo Garzya è contemporaneità e non somiglianza di vita né con i genitori né con altri perché la vita è una parola magica che sorprende non solo i sapienti ma soprattutto gli esseri umani di normale valore dovendo tutti stringersi in un parco di sentimenti e di pensieri tradizionali e quotidiani, d'idee innovative e rare, di regole e non di modelli stabili della società a cui si appartiene per la volontà di conseguire una struttura umana reale e non metafisica, universale e non fideistica: su queste basi si eleva il principio della conciliazione umana, valida per la nascita e la rinascita delle passioni e delle virtù, della cultura nella varietà del presente in rapporto al passato.
La vera umanità con il suo artistico umanesimo ( che deriva dal perenne umanesimo storico) redime se stessa e migliora operando negli studi delle forme continue del passato e nell'ammirazione di ciò che sorprese e continua a sorprendere l'uomo per essere e divenire più idoneo a intendere la vita degli altri: la patria, appunto, permette di salire e scendere la scala del futuro, unitario nel sublime e non nella miseria spirituale di un Continente in cui la vita di tutti merita la realtà e la verità nelle differenze ideali. Nasce tra natura e bellezza la felicità dell'innocenza che le leggi intendono proteggere e difendere facendo intravedere l'unità nel sublime e non nel sonno perenne.
Il sonno perenne è stato ed è la causa di tutti i sogni per i quali credersi inviolabili in ogni attività ideale e pratica: il sonno è una forza della natura che l'uomo non può volere che sia contro natura né superiore alla natura stessa. L'uomo non può soccombere in sé da se stesso. Tutti i caduti sono redenti come oboli di una maldestra universalità nell'esercizio di guerre particolari: i giovani vengono chiamati non solo a studiare ma a volere ciò che gli altri hanno deciso di volere come dovere assoluto e indiscutibile, coscienti o incoscienti della caduta dell'uomo nel nulla eroico, anch'esso provocato dall'unità delle visioni e delle convinzioni, ritenute valide come quelle di Dio, mitiche, quasi l'intimità dei sogni potesse corrispondere alla verità del continuare ad essere in natura per una bellezza irraggiungibile nell'Orbe più che nel patrio Continente. La felicità non è un modello e perciò è inutile rincorrerla nell'assurdo, che non è il sublime. L'umanesimo artistico di Garzya non può coincidere con la grecità o con la romanità o la germanità o altro: esso è l'uomo apparente che vive per l'uomo immortale, quello che vede senza nostalgia il proprio divenire tra oggetto e soggetto in amore di convivenza perfetta: il suo divenire vivifica le patrie e le rifonda nell'armonia che è propria dell'uomo che fa del mondo la casa del futuro. Così ciò che è di Garzya è di tutti come amore della storia che gli appartiene e ne costituisce l'identità poetica oltre che politica nella libertà. Egli da poeta dice: "Clessidre / giro / nella notte / fonda / interminabile". È questa la sua prima forma umana: vivere l'interminabile in sé ma visibile nelle varie organizzazioni storiche, le quali escludono l'idea di potenza e di potere. Essa annullerebbe la libertà come forza nascente della creatività. La natura in sé è invincibile e è perciò diviene fonte di amore, mentre le guerre corrispondono al silenzio della natura, se il silenzio è il contrario della PAX. La guerra dissolve le gioie e i dolori, li distribuisce ai vinti e ai vincitori, dando per certo che la morte contro natura è il nulla eroico per gli uni e per gli altri. Morire nel sublime vale lasciar vivere l'armonia delle libertà che alimentano le umane radici della bellezza: Desiderio / d'erica / le mie radici... / a ritroso / la memoria...
In Europa o nella Campine o nel Salento l'uomo non muore se non per rinascere nell'unità del presente con il passato da cui deriva per ordine affettivo, poi divenuto ordine di amore nella libertà come corda profonda che tocca quella / dei padri / dei padri: il passato diviene il luogo e il tempo dell'assenza del male come condizione vivificante della poesia dell'amore.
Come si può essere?
Pitagorici o socratici, platonici o cristiani, ma la grecità per la romanità non basta più a capire ciò che si è oggi nel sangue, nell'amore, nella cultura della libertà in patria per le patrie e per il cosmo: ci si sente comunque attratti nel sublime del passato. Ma se si rimane legati alla propria individualità, la vita diviene una colpa perenne anche per gli eredi, una hybris, si direbbe con retorica culturale, senza storia e senza umana percezione della realtà dei sentimenti già approfonditi nella consapevolezza dei modi di essere nei confronti del passato sì da superare ogni sventura personificata o personificabile contro ogni aspirazione di sublimazione continentale delle patrie, prima di coglierne i frutti : Ora / magico nord / a te / vorrei tornare, / dopo / quello / del Corno d'oro / che al Bosforo / già greco / s'apre.
Eppure un po' per volta tutto ricorda il Sud come in Ascona. Alternativamente il poeta, fatto uomo di fede antica, dopo d'aver scoperto se stesso nelle radici, va dall'uno all'altro polo per ritrovarsi nella "solitudine" che da poeta richiama pensando al filosofo F.Nietzsche. E perché? Perché si rimarrebbe stretti nella morsa dei valori, ai quali si guarda come a vette da conoscere mettendovi i piedi fino a toccare il sublime della storia che l'uomo a valle talora oscura. A Cevedale torna chiaro il processo umano della poesia come storia ideale: Come Piramidi / le cime / - / bianco / - / solenne / nella tua solitudine / --- / indomito / resisti?
Ciascuno di noi può diventare "prometeico" anche senza conoscere il Caucaso né l'Etna o Sils-Maria (Nietzsche): si rimane storditi in ogni caso se non si scende nell'assenzio / della volontà / che non muore. È qui lo Heimat o la patria umana, senza la quale ogni Prometeo vive assurdamente in catene; e, se non Prometeo, sarà certamente un Seneca, visto nello sfondo della storia come lo intende Rubens nel quadro che si può vedere e leggere a Palazzo Pitti a Firenze.
A me pare vera questa storia perché l'ho vissuta in prigionia di guerra quando ebbi la certezza di poter perdere il senso della mia storia umana e delle mie radici avendo smarrito non solo la realtà ma anche il tempo della genesi ideale e pratica. Non solo Nietzsche ( che è un moderno) ma soprattutto Seneca è un maestro della sublime storia vissuta in solitudine venendo meno il potere della civiltà e con essa il valore dell'uomo civile. Il futuro resiste ai dogmi e si apre alla cultura della Scienza come Conoscenza che è autentica forza della luce che impera sulle cose naturali. Così come non c'è materia, se non c'è l'uomo, il futuro rimane assente a se stesso perché non si può vivere il passato in estasi perenne; e non è umanesimo artistico, potrebbe essere o tutto al più diviene forma fideistica del presente come si canta in Lungo Senna e in Place du Tertre, come in Vetrate gotiche e in Cote d'or, quando i vasi/ si dilatano / in pianto.
Il passato, se è vero, dà forza al linguaggio creando nell'umano ordine né angoscia né aspettative improvvide per un sapere che nella realtà nulla muta. E siamo a Monteriggioni come vi fu Dante Alighieri per credere nel baluardo del nostro vivere. E si passa oltre per vivere il desiderio di quiete come in Punta Caruso e poi a Punta Imperatore spunta la donna che vira verso il verde per dare gioia alla vita che incoraggia a vincere le Assenze tra reti abbandonate sulla riva del mare.
Il linguaggio non ammette amnesie: il passato o il presente è la riserva meccanica del domani anche quando la solitudine esplode alla ricerca del bello che in natura feconda sempre nelle radici umane così come nelle radici delle piante e degli alberi, isolati fuori della foresta, prima che nelle foglie, nei fiori. Il linguaggio delle radici estende il tempo e non lo rende definito, anzi lo purifica con il vento delle tempeste. E siamo alla Morte di Cristo per conoscere il pianto delle donne, chiodo dopo chiodo. A questo punto il poeta crede di nascere e rinascere nella virtù e si riconosce in se stesso più di quanto possa esigere la morale della religione di Cristo, sopraggiunto a comporre e a ricomporre il valore dell'esistenza.
Il linguaggio, quindi, non è la pensione della morte, è la passione del vivere che assegna la ragione del diritto alla felicità e alla bellezza della natura che vengono intese meglio dal cielo e dalla terra di quanto possa l'impegno umano che deve al lavoro e alla donna la sua perfetta originalità se il vento non spazza la vita come si dice in Ortigia.
Il consenso poetico continua in Terra greca e poi in Primavera e continua intensamente in Attimi e si trasforma in Gioia, se pure in languido piacere, in attesa di altre Tempeste di vita, le quali solo con il Feeling vengono contenute al pensiero di vivere con la donna per volgersi in un Attimo all'ardore del divenire uomo nella verità sociale dell'amore così come pulsa in Frammenti ansie e speranze da suscitare in Passione volontà di amoreggiare per il bene del suo futuro.
Panacea d'amore la vita non è se la donna non apre il suo cuore all'uomo, anche se cosciente del suo umanesimo artistico: il maschio è un essere che il tramonto avvolge di continuo in un mistero, tanta è la pena che tormenta il sonno che può farlo scendere nell'abisso nero del tempo che feconda e attizza il presente in oblio: ed è Oblio. Subentra il Canto greco ed altre melodie scivolano in amore anche sapendo che non c'è un dopo. Ma Amalia vive davvero nel suo presente con il canto del destino comune, pur se lui dice: Il mio fado / nella penombra / è per te.
La donna nella poesia del Garzya è un'anima potente e gentile, non un carattere, un volto, una maschera o una maniera femminea; è piuttosto una miniera interiore del suo destino che riporta alle radici l'esistenza per voler tanti luoghi conoscere per far sentire per la prima volta l'urlo forte / tra amore e morte. Dei due, dell'uomo e della donna, ognuno diviene un Medardo Rosso per il quale su una appare un velo, sull'altro la tela grezza: tale la vita rimarrebbe se non intervenisse il richiamo cosciente alla storia degli altri esseri umani tra vita e morte che per necessità storiche scalfiscono pietre dure come quelle che vengono dalla memoria preistorica, pur volendo talora apprezzare le ragioni d'un crociato vessillo per liberare il Santo Sepolcro. Ma è possibile in Otrànto, in Otranto dare storia al mito o agli eroi del mito? Fatto strano è che l'umanesimo artistico diviene civile nel far vivere i suoi antidoti nelle vicende napoleoniche. Ma non è finito! Anche la natura dà il suo segnale di vita progressiva e indomabile in Napoli 1822, così: Spento il Somma / l'altra bocca / spasmi eruttivi / nell'aria / esplode.
Nel passaggio fra una storia e l'altra spunta per antitesi politiche Praga 1968 come primavera del socialismo umano, così come prigioniero di guerra l'avevo asserito in Kangra Valley e sentito solo come utopia. Ora non posso spargere parole per un giovane che apporta luce ad una realtà che sulle radici produce da sé coscientemente ciò che il tempo richiede agli onesti cittadini d'Italia e d'Europa: dare amore alla vita e onore alla morte, se nasce tra natura e bellezza la felicità. E mi pare questo un riquadro dato a Napoli o da Napoli della rivoluzione napoletana del 1799. M'impongo, appunto, di far parlare Il resto di niente di Enzo Striano. Forse è un modo semplicistico da critico come se non avessi tempo per esaminare i validi sensi dell'anima altrui e del pensiero che vi circola intenso per la necessità di andare avanti senza arrogarsi il vanto dell'eternità.

 

LUIGI COSTANZO

Napoli, 12 settembre 2003

Questa pagina sulla mia poesia fu pubblicata in GIACOMO GARZYA, POESIE (1998-2010), Napoli 2011, M.D'Auria Editore, pp.409-414.

 

 

PRESENTAZIONE DI EUGENIO MAZZARELLA DE "IL MARE CHE NON SI VEDE" DI GIACOMO GARZYA, 24 FEBBRAIO 2006. Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Palazzo Serra di Cassano, Napoli (mostra fotografica di Giacomo Garzya, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 24 febbraio - 18 aprile 2006).

 

Il mare di dentro, il mare che non si vede di Giacomo Garzya

Il mare che non si vede. Questo è il titolo delle foto che Giacomo Garzya mette in mostra questa sera e che coprono quasi tutto l'arco pubblico della sua attività di fotografo, che io sappia. La prima mostra di Garzya, Forti affetti, è del 1994, la prima di queste foto è del '95. Nello stesso decennio all'incirca Garzya pubblica quattro raccolte di versi, Solaria (1998), Maree (2001), Passato e presente (2002), Il mare di dentro, l'ultima, del 2005, che anche nel titolo è vicinissima alla mostra di questa sera. Per avvicinarsi alle foto di questa sera - al di là della loro bellezza, della raffinatezza delle immagini - per entrarvi dentro credo sia necessario, almeno per accenni, riferirle al percorso di questo decennio di Garzya, fotografo e poeta. Lo chiede lo stesso criterio antologico impiegato, una diacronia tematica.
Giuseppe Galasso, nella prefazione a Maree del 2001, notava che il mondo poetico di Garzya era "semplice, ancorché pensoso; composto, ancorché vivace". E "la spontanea levità" con cui scorrevano "i suoi versi, pur evidentemente tanto curati e rifiniti", non aveva alcuna tentazione, né la faceva avere al lettore, "di fingere travagli abissali, invidiosi veri, insospettabili e improbabili profondità"; la poesia di Garzya era quale subito appariva: "naturale e credibile nella sua radice umana e nelle movenze che si era data; il lettore non doveva cercarla negli ascosi penetrali del tempio", giacché "la incontrava, semplice e affabile, sulla soglia e non aveva difficoltà a intrattenersi con essa in fidati, per quanto tenui e sommessi, colloqui".
Una conferma in poesia - questa di Galasso - , di una poetica colloquiale, che Garzya aveva affidato all'obiettivo fotografico già nella prima mostra del '94, Forti affetti. Poetica che era già stata segnalata da Valeria del Vasto, che quella mostra commentava e recensiva. Il Leitmotiv del viaggio, che ne era il tema dominante, appariva, al commento sensibile della del Vasto, certo affidato ai luoghi visti, "ma soprattutto attraverso i propri sentimenti, gli stati d'animo, le emozioni", eludendo "la drammaticità immediata di certe immagini di Capa, o di Cartier Bresson", o " la plasticità dei corpi fotografati da Mappeltorpe", e piuttosto affidandosi all'osservazione della natura, dei luoghi, compenetrandosi con essi, trasfondendo "in essi un sentimento, un 'affetto', ma un affetto 'mediato, sublimato, proprio attraverso la contemplazione", difficilmente quelle immagini raccontavano "i particolari", drammatizzavano la singolarità dell'immagine.
Già richiamare questa notazione segnala, a guardare le foto scelte per questa sera, un registro diverso, e non ignoto a Garzya in questo decennio; contemplazione c'è sempre, però chiusa sul particolare: il focus non è il senso appagato dell'insieme, ma il centro - inquietante - della foto. Evidentemente, in questo decennio - visto che Garzya antologizza il suo tema in senso diacronico - il lato che si teneva in ombra di una poetica colloquiale; qui è la concentrazione assorta che sembra dominare, non la fusione con il "tutto" visto, è la concentrazione su di sé, il dettaglio che siamo che non si accomoda nel tutto, ma si rivede nel particolare, che chiede campo all'occhio.
La poetica di Picasso che la del Vasto richiamava a commento delle immagini di Colori di Procida, del 2002 - "Dipingere è il mestiere di un cieco. Egli non dipinge ciò che vede, ma ciò che pensa, cosa dice a se stesso su ciò che ha visto" - qui vira dal colloquio sulle cose al puro e semplice segnalare l'esserci, il proprio - dall'intimità, dalla confidenza con le cose, all'interiorità: "il mare di dentro" che si porta fuori, e vede "il mare che non si vede".
Una virata iconica che è già annunciata nella raccolta ultima, appunto, Il mare di dentro, del 2005, e che Patricia Bianchi segnalava con finezza: "Poesia essenziale, dunque, quella di Giacomo Garzya, o meglio ricerca delle essenze prime dell'uomo attraverso l'ascolto del proprio io, e non a caso è ritornante il tema della poesia come ricerca attorno ai principi essenziali della vita stessa, cioè acqua, aria, terra, fuoco".
Nei versi de Il mare di dentro, l'equilibrio del proprio essere al mondo è un carattere raggiunto, niente di nativo, neanche apparentemente "ingenuo" come nelle prime raccolte; il giorno non è "bello e felice", lo diventa se l'opera, l'opera della vita - nel medio dell'occhio - riesce.
Poetare è
Catturare il reale/ e trasfigurarlo con l'immaginazione/ questo è bello e rende felice il giorno./ Rendere semplice ciò che è complesso/ scoprire l'armonia delle linee/ nella luce che cambia/ nelle nuvole che corrono/questo è bello e rende felice il giorno.
Poetare è passare la linea d'ombra, Dall'ombra alla luce:
A volte/ la creatività artistica/ e il ripensamento/ sulle cose della vita/ ingenerano foglie di quercia ramate/ in sarcofagi pieni di luce/ e speranza/ in cui la morte si adagia serena/ per vivere di nuovo.
Se raggiungi la forma, morte si adagia serena.
Dietro l'apparente colloquialità di una vita, che ancora in un bel componimento prova a dirsi
Per un'amica:
Sottovento/ il senso/ della tua esistenza./ Sottovento/scarrocci/ frenando l'impulso/di vivere tra i marosi/…
c'è in Garzya la comunicazione di un sentimento tragico e trattenuto della vita, che accetta di vivere sottovento, scarrocciare, frenando l'impeto di vivere tra i marosi, affidandosi alla forma per costruirsi un carattere.
Questo sentimento tragico e trattenuto della vita era già tra le pieghe della luce apollinea cercata nel viaggio in Grecia in Solaria, del 1998, nell'incontro "felice" con il "calcare", la statuaria della natura, che gli faceva rivivere emozioni già provate a Capri, in Costiera amalfitana e nel Salento, "terre greche anch'esse". Come nella visione di
Màni :
Spoglio, un pozzo, una torre/lacrime fertili/ Màni vagheggi // Lacrime rare/ profondo calcare/ nascondi// Solo così riarso/ tempri il carattere,/ quello dorico intendo.
Un segnale anticipato, di dove, quasi senza avvedercene, Garzya ci ha portato in questa mostra: nella tensione tra apollineo e dionisiaco la cui soluzione nella forma è il lavoro del poeta e dell'artista. Nella caratterizzazione nietzscheana della "sua" grecità, del suo sentire e vedere:
"Nella comprensione immediata della figura noi godiamo, tutte le forme ci parlano, non c'è niente di indifferente e di non necessario. Tuttavia, nonostante la vita suprema di questa realtà sognata, traluce ancora in noi il sentimento della sua illusione" . Così Nietzsche nella Nascita della tragedia, che corsiva "illusione". E che soggiunge: "avrei da addurre più di una testimonianza e le dichiarazioni dei poeti".
Una testimonianza e una dichiarazione noi la troviamo questa sera, guardando le foto di Garzya e ripercorrendo il suo itinerario poetico. Un' "ingenuità omerica", per dirla con Nietzsche, quindi un'ingenuità apparente, come "perfetta vittoria dell'illusione apollinea", che in queste foto pare incrinarsi e pure si salva ancora con una sorta di "consolazione metafisica", il vero genio per Nietzsche del "greco profondo, dotato in modo unico per la sofferenza più delicata e più aspra, che ha contemplato con sguardo tagliente il terribile processo di distruzione della cosiddetta storia universale, come pure la crudeltà della natura, e corre il pericolo di anelare a una buddistica negazione della volontà", e che l'arte salva, e mediante l'arte lo salva a sé - la vita.
Quella "ripulsa dorica", nella volontà di forma, del tragico della vita, nel colloquio sentimentale con la natura e i segni dell'uomo che Garzya ha intrattenuto nel suo percorso decennale di poeta e di fotografo, appare oggi a latere, nel controcanto fotografico antologizzato in questa mostra, cedere alla drammaticità metafisica del particolare, che pure la forma tiene ancora fermo. In una qualche misura appare aver già ceduto da sempre.
Quando si vede il mare che non si vede, come in queste foto, quando viene fuori il mare di dentro la fotografia di Garzya cambia registro, e cambia registro anche il rapporto con la parola che ha sempre intrattenuto. Questo rapporto si muta, da sintattico, esemplificativo, ragionato, si fa parattico, indicativo. … Un passo in là, un passo ragionato nel sentire, per chi comunque ha scelto di non strambare, di andare più piano nel viaggio, accanto ai suoi affetti. Tanto il traguardo è di tutti lo stesso, di chi corre veloce e di chi rallenta; solo che chi corre veloce si perde il paesaggio.

EUGENIO MAZZARELLA


PREFAZIONE DI EUGENIO MAZZARELLA A GIACOMO GARZYA, PENSARE È NON PENSARE, NAPOLI 2009, BIBLIOPOLIS.

Anche questa quinta raccolta di versi di Giacomo Garzya, Pensare è non pensare, conferma il dettato poetico che gli è proprio, e che già Giuseppe Galasso individuava per tempo nella prefazione alla sua seconda raccolta poetica, Maree, del 2002: la semplicità pensosa del dettato poetico che non perde tuttavia vivacità nella compostezza del verso di "spontanea levità". Una poetica colloquiale che anche in questa raccolta trova nella topica del viaggio il suo scenario e la sua metafora; e nei suoi resti - lacerti di memoria, di visioni, tracce consegnate a "ricordi" recati dagli amici - i segnaposto di sentimenti, volti, paesaggi amati, talora visti negli occhi di un altro, nella privata geografia degli affetti (Sabbie e pietre, una poesia tesa e tersa, ne è un catalogo esemplare: Tutte care/ le sabbie, le pietre della mia vita... il bellissimo attacco ).
Questa ordinata topica del viaggio, che scandisce la sua cronologia interiore ancorandosi alla certezza del calendario degli eventi, è il riparo nella parola allo strappo esistenziale percepito sempre - ma sempre sommessamente - in agguato, e proprio alla vita degli umani: Siamo punti finiti/ in ciò che non è spazio/ o granelli ocra in un deserto infinito/ privo di speranza?/ La vita che viviamo e la morte/ sono le uniche certezze ( meditazione che annota "Ho tanta fede in te" di Montale in Parafrasando una poesia ). Sullo sfondo di tutto la sconsolata visione "domestica", detta con calma assoluta al proprio gatto (Il rigo agli occhi,/ la linea tra i visibile/ e l'invisibile demarca,/ come lo zenit/ che è al centro delle tue pupille,/ mio Arturo...; e ti viene di pensare alla costellazione, linea luce nel cielo nero notte), che alla "vita", a quella senza pena del "puro animale" - se poi c'è, puro e senza pena - l'Io dell'uomo e il suo affanno, il pur condiviso battito del cuore, è " alla fine... indifferente,/ invisibile, senza materia". E quell'"esisti solo tu" è detto forse a se stesso, ad ogni vivente chiuso nella sua pena.
Il calendario di questi due anni di poesia si strappa agli inizi del 2008, con la morte tragica dell'adorata figlia Fanny. Il foglio strappato è al 5 di febbraio, in una poesia presaga - A Nostri Morti - scritta altrove da dove si doveva stare, se solo sapessimo qualcosa del "cammino", nonostante "muscoli e tendini forti", e "volontà,/ per vedere e sentire e pregare" (Il tuo profumo è la lavanda...). L'essenziale di questo foglio strappato è nella dedica, che ti muore il cuore: all' adorata figlia Fanny, Angelo del Paradiso, segno premonitore/ della sua tragica fine, avvenuta poche ore/ dopo, lontana dal suo papà.
Allontanarsi da quel "lontana" è un calvario, salito solo aggrappandosi alla figlia perduta e presente, che già forse si sapeva di dover seguire nella memoria: Da tempo, da Fanny, avevo in testa/ il Cammino ( Saint Jean-Baptiste, scritta per motivare la decisione di intraprendere l'estate precedente il Cammino di Santiago già percorso dalla figlia ); per ritrovarne l' "idea", l'aspetto, il volto nel pensiero che "cede" di pensare - unico modo in fondo di sopravvivere: Il filo di Arianna, me, alla luce della ragione ha riportato,/ ma la realtà è comunque che tu non apri a chi ti bussa/ e non torni alla tua casa. Tu non tornerai più gioia/ delle gioie, perché l'atroce sogno è cruda realtà.
Dopo questa data nella raccolta, qualunque cosa ci sia, c'è solo Fanny; in movenze pascoliane, dove il filo che lega passato e presente, la cesura della perdita, e sutura e tiene aperta la ferita è il ricordo, l'amore di lei raccolto nel cuore. E' "il suo sorriso, il suo parlare sensato,/ il suo benevolo, umano affetto di figlia" (Non una stella stanotte...) , che fa argine all' "ansia di perdersi" in una vita ormai troppo vicina al vuoto delle ombre: il ricordo, il gomitolo del cuore, l'unico calore nella sinestesia del sentirsi e del sentire il mondo, l' "esterno", gelato in una lapide. E' la gelida simmetria tra l'inizio del dettato poetico del 16 marzo 2008: Sulla nuca vento marino,/ freddo,/ come lo sono io dentro,/ oggi che avresti festeggiato/ i tuoi venticinque anni./ Riscaldami col tuo sorriso,/ ora che senza di te ho perso/ una parte di me... e la chiusa del componimento del successivo 22: Il marmo canoviano, che ho davanti,/ la fantasia anima, come i sensi, e calore dà/ al cuore e alla mente, non così la tua lapide,/ senza speranza, che al tocco dolce della mano,/ resta gelida e muta.
"Freddo" , nella poesia, è isolato, è scolpito da solo. Uniche fonti di calore al cuore "ricordo" e "arte", il vetro della poesia che immalinconisce il ricordo e in una qualche misura lo fa dolce, ripara di lacrime gli occhi che bruciano: L'amore era nel tuo vivere,/ come acqua fresca di fonte,/ che purifica dal male./ Ben chiara avevi l'essenza/ dell'umana natura e agivi/ perché potesse in meglio mutare ( Un Fiore Reciso ). Ma questo si può guardare, si può reggere solo attraverso i vetri della poesia, chiusi nella stanza del cuore che ricorda, tra le mura dell'artificio, la parola, che Dio o gli dei hanno voluto dare agli uomini con "la vita che viviamo e la morte...uniche certezze":

INTRA MOENIA

Piovischio di tristezza imbeve
piante e palme sotto i busti severi
di Palazzo Firrao.

Ora l'acqua impreveduta travolge
E un amico,
di Aleksandr Blok,
sparge i versi nell'aria
senza tempo e luce.

Dietro un vetro riparati
la poesia ogni malinconia dilava
e tavolini deserti guardano gli occhi
sorpresi.

Se il miracolo regge, possiamo ancora essere qui.

 

EUGENIO MAZZARELLA


 

EUGENIO MAZZARELLA SU GIACOMO GARZYA, "UN ANNO", con prefazione di Silvana Lucariello, Napoli 2013, pp.1-74, M. D'Auria Editore (presentato da Silvana Lucariello ed Eugenio Mazzarella all'Istituto italiano per gli Studi filosofici il 7 febbraio 2014 ("Un cerotto sull'anima. Un anno di Giacomo Garzya", la relazione del filosofo e poeta Eugenio Mazzarella, fu pubblicata nella mia quattordicesima silloge "L'amore come il vento", Napoli 2019, Iuppiter Edizioni, pp. 59-61).

 

UN CEROTTO SULL'ANIMA. UN ANNO DI GIACOMO GARZYA

Anche quest'ultima raccolta di Giacomo Garzya, Un anno, conferma il dettato poetico che gli è proprio, e che già Giuseppe Galasso individuava per tempo nella prefazione alla sua seconda raccolta di poesie, Maree, del 2001: la semplicità pensosa del dettato poetico, che non perde tuttavia vivacità nella compostezza del verso di "spontanea levità". Così si esprimeva Galasso, e i versi anche di questa raccolta ultima confermano in pieno, credo, quel giudizio.
Una poetica colloquiale che anche in questa raccolta, lo notavo già nella prefazione a Pensare è non pensare del 2009, ha il suo scenario e la sua metafora nella topica del viaggio, e in ciò che del viaggio - insieme paesaggio e scenario interiore - resta: lacerti di memoria, visioni che dilatano un istante, fanno spazio di un'intuizione (qui credo ci sia il fotografo, l'occhio del fotografo di Garzya); tracce che si consegnano a ricordi, a un 'raccoglimento nel cuore' di un vissuto, di cui quasi ci si sorprende di essere ancora capaci di vivere: la sorpresa di "un'altra notte/ e tu canti ancora/ la tua voce triste…/ tu che hai perso tanto,/ tua madre, tuo padre/ tua figlia" (Un'altra notte).
Queste notti che sono ancora date dopo la perdita, cartografate, annotate, datate in Un anno ancora (e suona in questi versi una continua meraviglia di questo "ancora") da "pellegrino su questa terra,/ che non è più tua/ dove il pianto scava il tuo volto"(Saudade), queste notti dove "il quarzo dell'orologio avanza/ e allora altro non resta/ che aprire il meccanismo/ e mandarlo in frantumi" (Amici miei), dove "uscire dal dolore / è il momento più bello del nuovo giorno"(Uscire dal dolore), sono le notti che restano dopo Cinque anni, che Fanny, la figlia adorata, non c'è più.
Qui è difficile distinguere l'uomo dal poeta, forse non è neppure giusto, quando si è impegnati a "dimenticare per sopravvivere" (Cinque anni). Quando il cuore ti porta su un'immagine, una voce, un sorriso; e però, per non morire seguendo la tua personale Euridice in quell'immagine, in quella voce, in quel sorriso, su cui non riesci a mettere le mani, che non riesci più a stringere al petto, e solo ricordi come bambina correva a stringerti le ginocchia (Euridice, Campanule), per non morire, devi mettere la testa da un'altra parte; non cercare più nemmeno i gabbiani per parlare con lei, perché "danno troppo dolore"(Cinque anni).
C'è un "cuore contratturato" (Il contratturato) in queste poesie. Ed è quasi un miracolo che da questa contrattura dell'anima possa sgorgare qualcosa, che "al suono arcano del mare" possa "scorrere vino verde nelle vene", ad un piccolo tavolo, al Santa Cruz (si segna il posto, lo si nomina per la sorpresa) con amici (Portugal). Il vino verde, il colore della vita. Come possa ancora scorrere nelle vene, questa è la domanda, che lancina chi legge questi versi di "un naufrago senza speranza", un puntino sempre più piccolo all'orizzonte; fantasma, naviglio dell'io che va lentamente a fondo (Naufragio). Com'è possibile?
Balugina a un certo punto la possibilità della fede, in una fede che veda al di là della vita di qua, dove "il sole appassisce d'inverno". Al Monte del Tempio, "solo su queste pietre/ è resurrezione dei morti". Ma è un baluginio.
Fondamentalmente, a sostegno del lento andare a fondo della propria nave, della propria arca di sopravvivenza di amore, di affetti e ricordi, inesorabile a scendere in un mare di cui non si conosce il fondo, c'è la filologia dell'al di qua, la lezione del padre, da cui si impara a distinguere la verità che si può distinguere, il primo alfa, dalla corruzione dei testi (Filologie). La trama degli affetti, e i suoi ambienti (Lecce sacra e antica, e la figura della nonna; Napoli segreta e antica, e le sue passeggiate), di un'anima epicurea, la densità pensosa che si fa spontanea levità di parola (penso alla biografia minima, dialogo conviviale, di Portugal, Via Veneto, Ciro).
Insomma in Un anno, in queste poesie, Garzya è come se scattasse fotogrammi al suo vedersi vivere, e al suo veder viver, come homo patiens, quasi uno sdoppiamento che lo aiuta a vivere, che lo tira fuori dall'insostenibile (Homo patiens). Una poesia che è un cerotto sull'anima; del poeta, e di chi lo legge e misura alle di lui perdite le sue perdite.
Ma anche un insegnamento, che vorrei esprimere con una citazione da Oscar Wilde, che era in quarta di copertina di Solaria (1998), il primo volumetto di versi di Giacomo Garzya: "Coloro i quali trovano nelle cose belle significati belli, sono persone colte. Per questi c'è speranza". E' questa capacità per la bellezza, di farsi cogliere da essa pur nella pensosa consapevolezza della sua fuggevolezza, prima ancora della capacità di coltivarla, che permette di cogliere, nonostante tutto, il senso di ciò che fugge: "l'attimo di sole "che "illumina il bello della vita" (Momenti di luce), che dà nomi e volti a una vita che il poeta sa di passaggio; che è un anno e che pure c'è dato, e va patito, e vissuto; più raramente gioito, "mentre la terra gira/ e porta con sé il pensiero di tutti" (La sfera).

 

EUGENIO MAZZARELLA

 

 

GIACOMO GARZYA,"POESIE" (1998-2010), con prefazione di LUIGI MASCILLI MIGLIORINI, Napoli 2011, pp.1-456, M. D'Auria Editore, presentato all'Istituto italiano per gli studi filosofici il 12 maggio 2011, da Luigi Mascilli Migliorini, moderatrice Anna Esposito, con una scelta di poesie lette dal Maestro Carlo Forni.

 

MELIORA SILENTIO

Geografie dell'anima, si direbbe con espressione forse abusata di poesie come quelle di Giacomo Garzya che ora possiamo leggere tutte insieme, quasi come se un gigantesco atlante dei sentimenti si distendesse per intero davanti ai nostri occhi e noi fossimo chiamati a fissare su di esso le nostre personalissime bandierine, dopo aver dato -come è doveroso- attenzione alle bandierine già fissate dall'autore della mappa, cogliendo punti comuni di navigazione e di sosta, ma anche dissonanze inattese di orientamento e di approdi.
I luoghi -lo ha osservato già gran parte della critica- giocano, infatti, un ruolo fondamentale nella poesia di Giacomo Garzya. A cominciare dalla ripetuta e mutevole Grecia che viene incontro al lettore nelle prime pagine di questo libro dove -per ragione non intenzionale di cose- la geografia si fa storia e i luoghi diventano memoria. Come accade in Methoni, poesia dell'inizio, nella quale è chiamata a dar conto di sé non solo la Grecia dei miti, ma anche quella delle cronologie più vicine, che allo scontro tra Venezia e il Turco ("Methòni superba/di San Marco/la guardia/a bada tenesti l'offesa/del turco spavaldo"). E non potrebbe essere diversamente se per un attimo il nostro sguardo si insinua a cogliere, dietro le parole di poesia, le parole in prosa, la ricerca e la riflessione critica che in questi stessi hanno occupato Giacomo Garzya, storico della religiosità nel Mezzogiorno moderno. E da storico il Tempo, e il congedo da esso -"E tu/Spyridion/avanti l'antica gola -recitano i versi di Kardamyli- un mondo/che non è/più dispensi/Alito, assenza, brezza/il tamburo del tempo/batte/quello che va"- si piegano insieme al mutamento, giacché illusoria è -mi sembra di poter osservare- anche per il poeta la speranza - quella di Diafani e del suo Kafenenion- che il Tempo possa davvero arrestarsi.
Tempo, dunque, non immobile ma storico. Tempo che scorre, anche se l'Egeo carico di ritorni (ma così dovrebbe pure dirsi del nostro più vicino Mediterraneo, tra le Sirene sorrentine e il Salento, vagando tra le isole che portano il nome fascinoso di Capri, di Ischia, di Procida) sembra, talvolta, capace di negarlo. Così gli uomini stanno -nei versi di Giacomo Garzya- "ciclicamente/offesi a morte/a strappi si cresce". "Cinicamente -prosegue Uomini- offesi a morte/e/temprati/dalle umane miserie/si aspetta/ il verdetto/ del tempo". Convinzione che si ripete nella poesia Autunno dove, a ricalco di versi illustri, torna l'immagine della precaria condizione umana esposta, come tutti sappiamo, al mutare inesorabile delle stagioni e, dunque, "al primo soffio cade".
Il vocabolario di questo Tempo non è fatto di parole dettate da saggezza moderna, ma da una saggezza (si direbbe meglio una sapienza) assai più anonima e antica: "Non sono/i de La Bruyère/ -leggiamo- a sistemare/i precetti/del buon vivere/bensì pelle rugosa/di vecchia devota". Asperità, che è -lo confesso- tra le poesie che ho più amato, riprendendo, quasi, le cadenze della grande tradizione moralistica, epigrammatica, inverte intenzionalmente rapporti e gerarchie, lasciandoci intravedere dietro confortevoli accoglienze, l'autentica durezza delle relazioni in gioco: "Lo spigolo/nel quale spesso/m'imbatto/lo preferirei/di piperno/non di torba/grassa e corrotta".
Se si parte da questo punto; se si assume l'ingannevole verità della dolcezza, allora si spalanca la tragedia muta dove il dolore privato e quello collettivo, toccandosi, non possono che dar ragione al grido che è nei versi di Il ghiaccio e il fuoco: "Il massacro nei Campi fatti di forni/invece, inermi e ignare masse ha colpito/E' stato del tutto insensato/e nessuna giustificazione a ciò/l'uomo,la storia, possono dare".
Sembra quasi che, ad un certo punto, il Nord, "il magico Nord", si rovesci negli orizzonti azzurri del sentimento mediterraneo, li sconvolga e li riveli. Altre geografie dell'anima cui è destinato il compito di fare da contro canto alle immagini troppo rassicuranti, troppo pigre e felici, dell'esordio mediterraneo. La "ricerca del molteplice" (così nella bella A Fanny per i suoi vent'anni) conduce, così, a peripli che sono ritorni in luoghi (Alimuri, la Grecia, ancora le isole del nostro Golfo) di cui sarebbe difficile dire se sono immutati o stravolti, come sarebbe ugualmente difficile dire se i sentimenti che vi presero forma un tempo siano ora, ritornando, gli stessi o ci siano, in qualche modo, inattesi ed estranei. Il divenire è: torna proprio dalla Grecia (Diakofti) una lezione che in queste ripetute navigazioni è talvolta duro, ma sempre necessario apprendere.
E quanto duro sia stato per Giacomo è pudico tacere. Il tempo scorre, sconvolge gli spazi, il dolore disordina gli alfabeti. La parola si fa meno sicura del proprio valore, della sua capacità di suturare ciò che gli anni implacabilmente squarciano. Rimarranno le tue parole?: l'interrogazione si fa vertiginosa quando lambisce il Verbo, così rispondendo "E' fatale che tutto finisca/tu dici, Agnello, della mia anima/anche il sole e gli astri tutti/Nel vortice abissale tutti/nell'elicoide del Palazzo d'Urbino tutti/come in Matteo/con "il cielo e la terra passeranno"/Ma nel dopo rimarranno le Tue parole?/A volte se penso alla storia degli uomini/credo che Tu sia morto invano".
Ma la risposta vera è quella che Giacomo Garzya ritrova sul passo dell'Autoritratto di Salvator Rosa: Aut tace/aut loquere/meliora silentio. "O taci, o dici cose migliori del silenzio": cifra estrema e ragionevole della poetica colta di queste pagine, quasi di un Wittgenstein reso, e arreso poeta.

 

LUIGI MASCILLI MIGLIORINI

 

 

PREFAZIONE DI ENZO SANTESE ALLA QUINDICESIMA RACCOLTA DI POESIE DI GIACOMO GARZYA, "DELOS", NAPOLI 2022, IUPPITER EDIZIONI, pp. 1-342.

 

"Le mie poesie come le mie fotografie sono un giornale intimo che non è intimista. Sin da piccolo mi è stato inculcato il valore dell'universalità e quando scrivo fotografo, interrogo me, pensando agli altri." Con queste parole Giacomo Garzya segna un itinerario di attenzione per il lettore in una pagina d'avvio a una silloge del 2010 (Il viaggio della vita, D'Auria editore); è una sintesi concettuale che costituisce la nervatura primaria di una scrittura che mira alle profonde connessioni tra realtà interna ed esterna, mentre il poeta cerca dentro di sé quei punti di contatto con la realtà che giustificano un'appartenenza a pieno titolo al mondo. Le liriche sono percorse dalla frequenza di un dolore che diventa cangiante nei toni di sopportabilità e mutevole nella gradazione della sua incandescenza; qui si sviluppa una serie di annotazioni perentorie sulla dicotomia tra gioia e sofferenza, sulle ragioni che fanno prevalere di volta in volta l'una polarità emotiva sull'altra. Anche quando la metafora sembra raggiungere l'alta temperatura di una rarefazione del pensiero, la realtà si presenta nella sua essenza prospettata allo sguardo e all'animo del lettore con il tono di una colloquialità mai vernacolare, semmai ridotta alla cifra più prossima alla sensibilità degli altri, che l'autore si immagina lo ascoltino per un confronto ideale sulle valenze dell'"esserci" in una dimensione fisica che seduce con la sua avvincente bellezza e abbatte con la sua spietata discrezionalità. Il sentimento percorre nella vasta gamma dei suoi timbri tutta la riflessione di Giacomo Garzya che è intellettuale legato alle sue radici, ma quel tanto che gli consente di seguire la curiosità a conoscere le più diverse particolarità naturali, artistiche e antropologiche. Sì, perché nella poesia c'è l'uomo nella sua interezza, l'individuo che guarda a sé e, nel contempo, è atomo di un universo fatto di mille diversità nelle cose, nelle persone, nei loro modi di intendere l'esistente.
"Delos" qualifica questa silloge ed è titolo emblematico che racchiude nella brevità del nome la ricchezza di suggestioni di cui è capace l'isola greca e il mondo classico che rappresenta; nella sua fisicità dà corpo all'illusione dell'isola di Atlantide (immaginaria e simbolica nel pensiero foscoliano delle "Grazie"), dove bellezza e armonia costituivano l'essenza di un'atmosfera continuamente generatrice di vita. Il poeta conserva nella retina la visione spettacolare dei suoi marmi candidi, delle sue rovine che inducono il visitatore ad affidare alla fantasia il compito di una virtuale ricomposizione di quel paesaggio, dando ai resti di una civiltà millenaria la definita completezza delle origini. È un'avventura dello spirito che innesca una comunicazione diretta tra Giacomo Garzya e il genius loci, nei confronti del quale si pone in ascolto registrando quelle energie che servono a dilatare la tensione lirica in ogni luogo e tempo in cui la necessità del bello si evochi per la corrispondenza diretta con la realtà o per il rimpianto dovuto all'"assenza", tema portante di una frequenza emotiva portata ad attraversare in forma diretta o mediata tutta l'opera di questo autore. Il poeta, segnato dalla perdita della sua diletta figlia Fanny, sa che la giovane si è eclissata dalla possibilità di sguardi ed abbracci, ma è presenza costante in quei circuiti interiori dove le cose e le persone care saggiano il pregio dell'eternità. La perdita rende più poveri e, paradossalmente tanto forti da sopportarne i riflessi. "Come vorremmo riabbracciare / il sorriso di una persona cara / e non vederlo solo nella filigrana / della memoria." E il valore della vita si fa ancora più forte, anche quando è frantumato da azioni e proclami, "dove la propria vita si distrugge,/ per distruggere la vita degli altri." Ogni assenza genera un senso diffuso e inestinguibile di nostalgia, desiderio sottile in una percettibilità appena accennata, oppure prorompente per un'accresciuta sensibilità dovuta alla mancanza che può trasformarsi in nuova energia per innervare la presa d'atto di una necessità, quella di vivere pienamente anche per integrare il vuoto della sparizione con il pieno della poesia; questa non può essere medicamento di una lacerazione forte ma combustibile per fare ancora molta strada nella geografia complessa dell'esistente, dove il futuro si struttura anche nelle pacificate tensioni del presente.
Il poeta affida all'opera il compito di esprimere specularmente i pensieri, gli stati d'animo, la trepidazione per una realtà che in troppe occasioni divarica dalle leggi della bellezza, facendo prevalere la logica della violenza che macchia la storia di efferata tensione al brutto. Ne è paradigma lampante l'Olocausto, obbrobrio di un'animalità intollerabile perché "un tempo lontano fuoco / e sacrificio di agnelli, / disciolse nel sangue gli umori cattivi / dell'uomo". Fortunatamente la compensazione, pur parziale, la si trova nelle meraviglie dell'ingegno, come è la "Primavera" di Botticelli, "fiorita" nella poesia Zefiro, "il leggero soffio da ponente / la primavera annuncia / con le sue ghirlande di fiori." Il tono elegiaco dell'opera si amplifica con la mente proiettata in terre lontane, a Gerusalemme, sulla spianata del tempio dove la voce di Dio è inascoltata da parte di coloro che ancora coltivano "odio antico, rabbia, contesa".
I versi rispondono nel loro ritmo a una norma di musicalità che modula i propri registri in rapporto al soggetto ispiratore, variando anche le sfumature d'umore dentro la maggiore o minore brevità dei concetti tradotti in un'ampia antologia di soluzioni formali da una vocazione che spinge a trasmettere con immediatezza, non a "costruire" secondo mestiere. Da qui nasce una poesia pulita, scritta sull'onda di una generosità che dice parole per sottolineare la volontà dell'autore di essere nel mondo cercando una sponda per i suoi tremori e un confronto per le sue certezze.
Giacomo Garzya apre in questa sua quattordicesima raccolta poetica un diario intimo, costruito sulle emozioni che in un determinato tempo e luogo hanno generato il flusso concettuale e lirico delle composizioni; li ha indicati puntualmente quasi a scandire il proprio vissuto sulla necessità di comunicare al lettore o all'ascoltatore la scintilla generatrice del suo sentire consegnato a versi estranei all'orpello decorativo. La conferma sta anche anche nel libro precedente, "L'amore come il vento" (Iuppiter edizioni), in cui i testi citano il motivo della morte, esaltando comunque il valore della vita. I paesaggi, anche se luminosamente tracciati in punta di penna, come dire in delicata strategia di evocazione, vivono su una fisicità che sfuma i propri contorni dentro un complesso di scrittura che plasma i toni secondo una variabilità che è direttamente proporzionale al veloce avvicendarsi delle stagioni, dei suoni, dei colori e si posano sulle evidenze fisiche e architettoniche dei luoghi, dove Garzya - sembra dircelo con la voce sommessa e forte della sua espressione regolata secondo le pulsazioni del mondo interiore - con la forza del suo dire sottolinea che la poesia abita ovunque e che al poeta è dato intercettare le sue vibrazioni più segrete. Come fa lui, con la semplicità di un racconto che parte dal dato autobiografico ma segna confini di un territorio dove è possibile una generale condivisibilità da parte di chi legge. E a Delos l'enigma della seduzione parte proprio dalle forme evidenti della bellezza lasciata in eredità da un mondo che compensa con i suoi riflessi la oppressiva opacità del presente.

 

ENZO SANTESE

 

 

RECENSIONE DI LUCIA GUIDORIZZI AL LIBRO DI GIACOMO GARZYA, "DELOS", NAPOLI 2020, IUPPITER EDIZIONI, pp. 1-342, IN "CARTESENSIBILI" (WORDPRESS.COM), 24 DICEMBRE 2022.

 

IL SACRO CENTRO DELLA POESIA. LUCIA GUIDORIZZI : A PROPOSITO DI "DELOS" DI GIACOMO GARZYA.

Della vasta e articolata produzione artistica di Giacomo Garzya, poeta completo nello sguardo e per complessità culturale ed esistenziale, mi ha colpito in particolar modo la lettura della raccolta "Delos. Poesie 2015-2019", Iuppiter Edizioni, Napoli 2020, che copre l'arco di quattro anni, sviluppando un'affascinante pluralità di temi e tonalità emotive, di sguardi e paesaggi.
Già dalle prime pagine appare evidente la raffinata formazione culturale dell'autore, unita all'esperienza di molteplici viaggi compiuti in terre lontane e vicine, ma anche attraverso il tempo e dentro se stesso, cifre che contraddistinguono la sua poetica, imprimendovi un'aura inconfondibile che gli deriva da una profonda sensibilità, acuita dalla forza alchemica operante del dolore che trasmuta e trasfigura ogni esperienza terrena.
La raccolta è dedicata alla figlia Fanny, scomparsa tragicamente a soli ventiquattro anni nel 2008 ed è suddivisa in due sezioni: "I sassi parlano" e "Delos".
Nell'accurata prefazione al libro Enzo Santese scrive: "Delos qualifica questa silloge ed è titolo emblematico che racchiude nella brevità del nome la ricchezza di suggestioni di cui è capace l'isola greca e il mondo classico che rappresenta; nella sua fisicità dà corpo all'illusione dell'isola di Atlantide (immaginaria e simbolica nel pensiero foscoliano delle "Grazie"), dove bellezza e armonia costituivano l'essenza di un'atmosfera continuamente generatrice di vita."

Delos, l'isola sacra, luogo di nascita di Artemide e Apollo, i due gemelli divini, è il centro politico e religioso, ma anche militare del mondo antico da cui si dipana il viaggio poetico di Giacomo Garzya, evidenziandone il profondo legame con la classicità. Nell'antichità il nome di Delos, come quello dell'isola che costituisce la parte più antica di Siracusa, era Ortigia, che significa "quaglia" (in greco antico: ortyx), l'animale sacro ad Artemide e che è simbolo della Dea.
Viaggiatore d'eccezione, Giacomo Garzya ha percorso terre, mari, deserti, montagne, isole che fa confluire nel centro di Delos, immagine misteriosa e sacra capace di agglutinare tutte le altre, athanor misterico in cui si distilla l'elixir della poesia.
L'autore interroga il mistero dell'esistenza e pur narrando il suo percorso individuale, questo assume anche una valenza universale poiché, come egli stesso afferma, "Interrogo me, pensando agli altri": in quest'affermazione sta il presupposto dal quale inizia ogni suo lavoro e ricerca, si tratti di un viaggio in terre lontane o di un esplorare città e atmosfere familiari. Il suo intento è ricercare l'enigma nascosto, per coglierne il significato più profondo. Ogni luogo così diviene microcosmo e si configura quale centro spirituale in cui assenze e presenze s'integrano.
Grazie alla sua sensibilità riesce a trasformare anche eventi dirompenti come le tempeste in esperienze estetiche in grado d'illuminare la vita come in una sinfonia non scritta di Alessandro Scarlatti.

TEMPESTE

Di Alessandro Scarlatti
una sinfonia non scritta
ho ascoltato,
in una cappella sul ciglio
del mare, fatto di aghi bianchi
e trasparenti cristalli.
Le onde impazzite, racconta,
del mare, quando esaltano
e lacerano insieme l'anima,
nel ricordo delle tempeste
in ciascuno di noi,
eterno movimento dello spirito,
ora flauto
ora oboe
ora violoncello
ora dolore
ora gioia,
nel teatro barocco e mistico
della nostra vita.

Marina del Cantone, 28 febbraio 2016

La vita del poeta è vissuta pienamente e con grande consapevolezza e apertura tra viaggi, città, amore, amicizia, interesse per l'arte, la storia, il mito e la letteratura e tutto ciò appare dai suoi scritti, ma non bisogna dimenticare che l'autore è anche un eccellente fotografo, capace di cogliere gli enigmi insiti nei volti e nei paesaggi. Nella sua arte, si opera una trasfusione continua tra parola e immagine.

Come afferma Roland Barthes: "Ciò che la fotografia riproduce all'infinito ha avuto luogo una sola volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai più a ripetersi esistenzialmente. In essa, l'avvenimento non si trasforma mai in altra cosa: essa riconduce sempre il corpus di cui ho bisogno al corpo che io vedo; è il Particolare assoluto, la Contingenza sovrana, spenta e come ottusa, il Tale, in breve la Tyché, l'Occasione, l'Incontro, il Reale nella sua espressione infaticabile." (da La camera chiara).

PANTHÉON

Percorrevo con te
rue Soufflot,
lo stesso passo
lo stesso pensiero
lo stesso sorriso,
arrivare ai giardini
del Lussemburgo
per godere la pace,
la vita di questa Lutezia
cosmopolita e viva di luce.
Tu sei con me anche ora,
dopo dieci lunghi anni,
nello stesso bistrot belga,
come mia madre
come tua nonna,
l'anima in pace,
in un momento di guerra
di terribile insensata guerra.

Paris, le 24 mars 2016

TRAMONTO AL LUXEMBOURG

Scherzavi
con le nuvole rosa e rubine
della sera,
domani è un bel giorno,
dicevi, e eri felice del tuo
Don Quijote, l'hidalgo napoletano
qui a Parigi, per scoprire con lui
un mondo fantastico di pupi
siciliani, di fantoche, poupée
e guinol, marionette
universali, gioia di grandi e bambini,
di mulini a vento, qui a Montmartre,
giganti visioni dalle braccia rotanti,
tu che volevi un mondo giocoso
irreale, buono.

Paris, le 25 mars 2016
.
Parigi è il luogo dove la figlia Fanny ha vissuto per un periodo e che pertanto si carica di intense risonanze emotive.
Altro centro simbolico del suo andare poetico è Napoli, sua città d'origine, barocca e medievale, aragonese e normanna, piena di seducenti contrasti, ricca di storia e di testimonianze artistiche.
La capacità di sguardo poetico e fotografico di Giacomo Garzya si manifesta sempre nel cogliere il bagliore dell'istante. Napoli è densa di risonanze letterarie e artistiche, è la città di Salvator Rosa, di Anna Maria Ortese, di Raffaele la Capria, di Ermanno Rea, ma anche di Eduardo Scarpetta, dei fratelli De Filippo, e appare come città sfarzosa e sontuosa anche nella sua vivace povertà.

MISERIA E NOBILTÁ

Una cicca, sì proprio una cicca
di sigaretta, erano spiccioli,
quelle che raccoglievano
con bastoni con punta
a chiodo, uomini e donne
persi nell'ombra di se stessi,
ai bordi dei luridi marciapiedi
della Stazione centrale
o a via Roma,
dove i marciapiedi
erano come le ruote delle auto,
putridi di piscio di cane.
Era la povertà di allora,
la povertà di Napoli, ancora
quando con i pantaloncini corti,
a nove, dieci anni correvo
per il centro della città,
io vomerese,
quindi d'un altro pianeta.
Sparirono poi i bastoni con punta
a chiodo e rimasero gli sciuscià,
il mestiere che impomatava,
spazzolava e lucidava
le scarpe coperte di polvere.
L'ultimo sciuscià, lo puoi oggi
ancora incontrare,
Angelo Calza,
fuori la Galleria Umberto Primo,
in quella che ora si chiama
via Toledo,
come cambiano i nomi,
e quando sporcò i miei calzini,
al momento non si dette pace,
ma poi incolpò
le mie scarpe americane, le mie
Timberland da combattimento.
In dollari, disse, mi dovete pagare,
ridendo.
E al Grand Central Station
di New York
gli sciuscià, sono di nobile stirpe
per i prezzi che fanno,
per la loro prosopopea,
per il loro antico mestiere.

Napoli, 12 maggio 2016
.
Nella seconda parte della raccolta, intitolata appunto "Delos", i versi assumono una forma breve, a tratti epigrammatica, abbandonando la forma sciolta, epica e narrativa, per acquisire maggior intensità e condensazione. Le poesie, fedeli alla classicità, hanno come elementi dominanti l'amore declinato in tutte le sue forme: amore per gli amici, fraterno, coniugale, paterno, tenerezza profonda nei confronti della nipotina e che si esprime con intensità di accenti che avvicinano la sua opera al Canzoniere di Saba.
Sono innumerevoli le città e i luoghi attraversati dall'immaginario poetico di Giacomo Garzya, come l'isola di Procida, frequentata fin dall'infanzia, la stessa in cui Elsa Morante ambientò "L'isola di Arturo" e Trieste, sua città d'adozione, con la sua anima cosmopolita, il suo Molo Audace e Piazza dell'Unità, nelle cui strade aleggiano le presenze letterarie di James Joyce, Italo Svevo, Ernesto Saba.

Oh, le campane di San Giusto
quanta grande e piccola storia.
Oh, la sinagoga a un passo
dal Caffè San Marco.
Oh, il tempio serbo-ortodosso
in piazza Sant'Antonio nuovo.
Tutte espressioni di libertà
e di cultura aperta a tutti i venti.
.
Trieste, 15 marzo 2018

Affiorano immagini di grande sensibilità pittorica che assumono la valenza di una condizione esistenziale, come il rosso pompeiano che sfuma e sbiadisce al pari della bellezza in un volto femminile.


IL TEMPO SCORRE

Il rosso pompeiano,
a macchia copriva l'intonaco,
colore dava al tufo qua e là,
un vestito ormai logoro,
il vento della storia
a corrodere i pigmenti,
come gli anni a scarnire
il volto, un tempo bello,
d'una donna, che aveva sedotto,
ora, ancora, con i suoi occhi
profondi.

Napoli, 20 marzo 2017

I suoi versi sono intrisi anche da un senso di solitudine e raccoglimento, condizioni precipue per l'espressione poetica.

Solinga
la vela in un fascio di luce,
che cerca?
La libertà sul manto
argentato del mare

Napoli, 3 dicembre 2017

L'ineluttabile entropia prodotta dallo scorrere del tempo ritorna condensandosi nella bellezza di Duino, luogo letterario e leggendario per eccellenza.

DUINO

Un alone romantico
sulle rovine del castello
e su quelle pietre il riflesso
magico del golfo di Trieste
e di Miramar.
L'acqua placida,
in un giorno di bruma,
fa pensare a una spada
nella roccia, a una spada
nel mare.
Ogni pietra parla di guerre
e di amori.
Tutto è ora silente nel riposo
degli eroi, ma che, a tanta
bellezza, vivono e rivivono
in noi, Diomede su tutti,
re dell'Adriatico mar.

Trieste, 4 luglio 2018

Tutto in questa raccolta si struttura in una polifonia di voci e di accenti che si combinano insieme con eleganza, umanità, autenticità e grande amore per la ricerca interiore.
Poesia è viaggio e il viaggio poetico di Giacomo Garzya, profondo e intenso, è orientato verso il centro sacro di Delos, isola santuario galleggiante nel Mar Egeo.

LUCIA GUIDORIZZI

 

 

PREFAZIONE DI PAOLA CELENTANO GARZYA ALLA QUATTORDICESIMA SILLOGE POETICA DI GIACOMO GARZYA, "L'AMORE COME IL VENTO", NAPOLI 2019, IUPPITER EDIZIONI.

 

In memoria di Fanny

 

Quando mio marito Giacomo ha deciso di pubblicare in
due volumi - questo, dal titolo L'amore come il vento, è il primo, l'altro, invece, vedrà la luce nel 2020 - le sue poesie edite ed inedite scritte tra il 2011 e il 2019 per commemorare il
decennale della tragica scomparsa di nostra figlia Fanny
(Napoli, 16 marzo 1983 - Castelvolturno, 6 febbraio 2008),
ho subito pensato di contribuire anche io al ricordo con
una riflessione a lei dedicata, sotto forma di lettera, affiancandomi così, in punta di piedi, alle tante poesie che Giacomo ha scritto per lei.
Cara Ninni,
sono passati dieci anni, densi, impegnativi, fruttuosi. Il dolore è sempre acuto, crescente, radicato: ti sentiamo tutti in
qualche modo presente, sicuramente in una dimensione di
beatitudine, in pace con Dio, e questo ci conforta; nello stesso tempo la tua presenza fisica, le tue gioiose manifestazioni vitali, ci mancano sempre di più.
Il tuo esempio in ogni caso ci guida e ci sprona a mantenere vivo il tuo ricordo, con un fervore improntato sul rigore morale e, per me in particolare, sul valore cristiano, il più
elevato da te concepito: eredità preziosa da custodire e mettere sempre a frutto.
"Quando busserò alla Tua porta avrò fatto tanta strada...".
Le parole di questo brano religioso, mi sono risuonate
spesso alla mente dopo il 6 febbraio 2008, quando hai lasciato questo mondo. Sì, perché nella tua breve esistenza ne
avevi percorsa di strada e non solo a piedi. Sicuramente emblematico in tal senso è stato il Cammino di Santiago, da te
compiuto nell'agosto 2006, metafora della tua stessa vita:
questa impresa simboleggia, infatti, efficacemente la tua
capacità di aver saputo affrontare e sopportare le difficoltà
con tenacia, per arrivare alla meta, la tua fiducia nel prossimo, la piena adesione al valore della libertà, il tuo amore per
la natura, che si esprimeva col tuo genuino stupore per la
bellezza del Creato, quando, per esempio, rivolgevi il viso
verso il cielo terso, per contemplarne le stelle, la tua costante, sincera, ricerca di Dio, il senso puro della gioia, che
avevi dentro di te, trasmesso contagiosamente a chi ti stava accanto.
Il tuo tracciato esistenziale, intendo, è anche ricco di segni di altra matrice, che tu hai lasciato come monito vivo,
per la ricerca di un senso migliore da dare al nostro quotidiano. Tu l'hai dimostrato col tuo modo di essere non convenzionale, supportato da una logica filosofica, che proponeva ipotesi alternative al modo corrente di pensare, in apparenza inconcepibili, ma nell'attuazione quasi sempre indovinate.
Sì, perché con la tua crescita come persona, arricchita
dall'amore per la lettura e dal contatto immediato, franco,
leale col prossimo, avevi inteso appieno il messaggio evangelico, quello interpretato da San Paolo, che attribuisce alla Carità un valore fondante. Ed è per questo che riuscivi, a
prescindere dalle tue umane inclinazioni, a considerare l'altro, quale persona degna di rispetto e di attenzione, perché
da amare, innanzitutto, come fratello.
Quante volte, come madre, ho ricevuto da te insegnamenti, inizialmente non compresi e solo in seguito degnamente apprezzati: tu riuscivi, per esempio, ad individuare
con naturalezza strategie pacifiche nella risoluzione di conflitti, da me giudicati inestricabili. Se tentavi di aprirmi gli occhi, io miope li chiudevo, forte della mia presunta adultità; scoprivo, poi, sorpresa che con la tua lungimiranza,
avevi colto nel giusto: quella via che non avevo ancora esplorato si rivelava praticabile e promettente. Quante volte mi
hai aperto gli occhi al perdono!
È questo uno dei testimoni più preziosi che mi hai lasciato, che ci hai lasciato: saper amare senza riserve, con
slancio e tenacia, guardando lontano, oltre il confine dell'immediato.
Ora penso a te come ad un vero Angelo: sento che continui a soccorrermi, scongiurando col tuo sostegno che cedimenti e smarrimenti abbiano il sopravvento, con l'indicarmi quella strada sicura espressa dalla parola evangelica, che
mi alimenta e mi aiuta, talvolta, anche a sorridere.
Ancora una volta ti dico grazie Fanny e, nonostante tutto, ti prometto di non arrendermi a una vita senza senso.
Con l'amore di sempre, la tua Mamma.

 

PAOLA CELENTANO GARZYA

 

 

PRESENTAZIONE DI ANNA PICCIONI A GIACOMO GARZYA, "L'AMORE COME IL VENTO".


"L'amore come il vento"

 

Apro il libro e mi preparo a leggere versi, parole della poesia di Giacomo Garzya. Con grande sorpresa la prima parte sono versi scritti in francese, una lingua che amo e conosco. Il francese ha una sua musicalità e un magnetismo che s'intreccia con le corde del cuore. I versi incantano, prendono, trascinano verso l'infinito (p. 21).
È così piacevole ascoltare la tua voce lontana/ è così piacevole moltiplicare le tue dolci parole/ è così piacevole guardare il cielo/ e seguire le scie degli aerei / che portano a te/ è così bello scriverti parole d'amore/.
La morte di una figlia è straziante, ma il dolore sofferto in comunione con la moglie ( p. 45),
Dietro il vetro appannato/ una donna che guarda/ con gli occhi perduti nel vuoto,/ una figlia nel fiore degli anni/ ha perduto,
non toglie il ricordo di momenti felici, di immagini incancellabili: l'ineluttabilità della morte non toglie la speranza di ritrovarsi in un altrove (p. 23), la finitezza dell'esistenza contrapposta all'infinità di un mondo altrove che non appartiene a noi vivi.
Tu non arrivi, tu non verrai/ perché non dovevi partire/ perché tu non esisti/ che per le tue brughiere
Un esistere, ex-stare, stare fuori ma non nega l'esserci
e poi (p.27)
non un giorno passa/ che tu non preghi per me/.
Il sogno supera la realtà, è un luogo vero vissuto, è rimedio al dolore che la vita ci mette davanti.
Giacomo Garzya è il poeta dell'Amore...cos'è l'amore se non darsi/ un bacio e stringersi forte? (p. 33), dell'amicizia…i raggi del sole / una bella amicizia riscaldano/ noi seduti all'aria aperta... (p.44). E per finire questa prima parte, la musica, i suoni, le note del violino e pianoforte che confortano: l'anima trasportata nel passato dal suono nostalgico del violino, riportata al presente dal fermo suono del pianoforte "...gli archi si tendono verso il passato/, mentre il pianoforte guarda/ verso il presente/ non so perché..." Je ne veux pas tormenter moi meme" (p.47).
"L'amore come il vento" : il vento uno degli elementi più cantati dai poeti: elemento liberatorio che deterge e libera, fa librare e vibrare l'anima in tutte le sue corde; stacca dalle sconfitte e dal dolore.
Il vento e l'Amore (p. 151),
...il vento possente del mare/ a cui nessuno resiste./ Solo il marinaio provetto,/ solo un amore infinito.
La poesia di Garzya è un canto alla natura, alla donna, all'Amore. Ogni luogo visto dal poeta suscita emozioni e sentimenti profondi, che producono una metamorfosi: il poeta è il luogo.
Nei suoi versi c'è sempre un interlocutore un tu: la poesia non è introitata, ma è condivisa con qualcuno o qualcuna che comprende, e si assiste a una fusione di anime e luoghi. La donna e la Natura si fondono in un unico abbraccio che accoglie lo spirito tormentato del poeta (p. 166),
Correvo senza una meta/ là dove gli abeti e i pini/ si esaurivano nella tundra/ là dove gli ermellini, le volpi,/ le lepri immacolate/ fanno capolino/ nelle distese innevate/ e tu donna eri lì/ come un angelo/ ad accogliere i miei tormenti/ a lenire la mia solitudine/ a lievitare la mia esistenza/ col tuo amore nel mio.
La Natura del poeta è quella del mondo classico, dei miti, la Natura dei cantori classici.

 

ANNA PICCIONI

"L'amore come il vento", Napoli 2019, Iuppiter edizioni, presentato all'Università Liberetà di Trieste da Anna Piccioni (8 novembre 2019).


 

PRESENTAZIONE DI GIACOMO GARZYA DEL LIBRO DI AURORA CACOPARDO E DI FRANCESCO D'EPISCOPO "NAPOLI: LUOGHI LETTERARI"

 

È con vero piacere che mi accingo a presentare, in questa benemerita sede dell'HUMANITER, il libro "Napoli: luoghi letterari" di Aurora Cacopardo e di Francesco D'Episcopo, edito nel 2011 dalla emergente Casa Editrice IUPPITER EDIZIONI di Napoli. Aurora Cacopardo, ora insegnante qui all'HUMANITER, è stata una valente docente di materie letterarie nei Licei ed è una colta, sensibile, acuta critica letteraria napoletana, che ho avuto modo di apprezzare personalmente negli ultimi anni leggendo le sue recensioni agli ultimi miei libri di poesie. Ella ha infatti dato ottima prova di sé collaborando con riviste quali Il Cerchio, Essere, Napoli City, nonché scrivendo sulle pagine culturali del Roma, del Danaro e di Chiaia Magazine, un periodico questo di grande importanza civile, sociale e culturale non solo per il quartiere Chiaia, ma per Napoli tutta.
Francesco D'Episcopo, autore di numerosi volumi e saggi sulla Letteratura italiana, insegna questa materia alla Federico II ed è un critico letterario, con al suo attivo vari riconoscimenti ufficiali alla sua pluridecennale attività.
Il libro che si presenta ora, riguarda quattro autori, che hanno lasciato una traccia profonda nella cultura napoletana, pur con esiti diversi : Carlo Bernari, Luigi Incoronato, Domenico Starnone ed Erri De Luca, i primi due, avendo avutouna fortuna non proporzionata al loro effettivo valore. Gli ultimi due, a noi contemporanei, depositari di numerosi riconoscimenti sia da parte della critica che dal pubblico di lettori.
Scopo principale delle pagine critiche di questo libro è non solo spingere alla lettura di pagine su Napoli talora dimenticate e difficili da reperire, è il caso di Bernari, ma quello di riscoprire due autori, Bernari appunto e Incoronato, che hanno dato nei loro scritti un'immagine realistica, anzi meglio dire neorealistica, della città di Napoli e confrontarli con due autori, Starnone ed Erri De Luca, che nel raccontare la loro città, perché di racconti si tratta e non di romanzi, hanno dato sì un taglio realistico, ma soprattuttolirico, in particolare Erri De Luca, ma anche Luigi Incoronato, nella scena alla Stazione centrale e al suo vagare tra i binari, insieme al protagonista anonimo, che si identifica, come ben dice Francesco D'Episcopo, con l'autore stesso.
La scelta di Aurora Cacopardo e Francesco D'Episcopo di analizzare l'opera di questi quattro autori, tuttavia non prescinde dal voler mettere in evidenza i luoghi i cui si svolgono le storie e lo stesso narrare: via Speranzella, Scala a San Potito, via Gemito, Monte di Dio.
I luoghi, i siti hanno sempre rappresentato e rappresentano momenti evocativi di grande valore emotivo sia per chi vi nasce, sia per chi li vive e sia per chi li visita da forestiero. I luoghi sono la storia dentro e fuori di noi e di essi non si può fare a meno se è vero che la memoria non ossida il tempo, cioè se la memoria permette che il tempo inteso come vissuto di un singolo e/o della collettività resista all'oblio. Ciò vale per tutti i luoghi che hanno un vissuto da raccontare, Napoli e la Gerusalemme di Erri De Luca, nel nostro caso.
La Napoli, qui raccontata, è una Napoli fatta di eroi e antieroi, penso, in particolare, da una parte, al ragazzino protagonista in "Montedidio", dall'altra, all'anonimo protagonista, con Giovanni, in "Scala a San Potito", ma anche una Napoli disperata nella sua miseria, lontana anni luce dalle rappresentazioni festose, carnascialesche, folkloristiche di certa ben nota letteratura. Il colore della miseria, della solitudine, che prevale in molti passi di queste opere e nei suoi personaggi è il grigio, un grigio che dà poco spazio alla speranza, se si escludono le avventure salvifiche nel racconto di Erri De Luca.
In "Napoli: luoghi letterari" Aurora Cacopardo tratta in primis della figura letteraria e artistica di Carlo Bernari, un autore di spessore, che Domenico Rea non esitava a proclamare, nel 1958, come "l'unico scrittore napoletano degno di questo nome" e che avrà una vita spesa tra giornalismo, riviste letterarie e sceneggiature cinematografiche. Ebbene Carlo Bernari, autodidatta, come non pochi scrittori negli anni '20 e '30, antifascista, frequentatore delle idee crociane, nonché, durante un breve soggiorno a Parigi, di André Breton, padre del Surrealismo, produsse nel 1934 il suo primo romanzo "Tre operai" in una collana diretta da Cesare Zavattini, che non ebbe che poco pubblico, anche se una buona critica. "Tre operai" rappresenta il manifesto sociale dello scrittore, che preannuncia un lavoro di scavo ventennale sulla sua città, che si condenserà in due volumi, la "Bibbia napoletana" - "considerato uno dei libri più affascinanti non solo su Napoli ma "di Napoli" - e "Speranzella", il suo capolavoro, uscito nel 1949 e vincitore ex aequo del Premio Viareggio, con buon successo, questa volta, di lettori e di critica.
Aurora Cacopardo, dopo aver ben disegnato la biografia di Bernari senza nascondere l'astio che nei suoi confronti aveva avuto Elio Vittorini, come è noto, intellettuale organico del Partito comunista e quindi diffidente nei confronti di chi conservava una propria libertà di scelta e di giudizio, si ferma a parlare a lungo del romanzo "Speranzella", ambientato nella Napoli a cavallo del ben noto Referendum Monarchia-Repubblica. Questa disamina critica di Aurora Cacopardo si sofferma sui punti principali dello spirito narrativo di Bernari, nonché sulla sua tecnica narrativa e sull'uso del dialetto, sulla scia dell'esperienza di Verga e di Alvaro, senza dimenticare la lezione di Di Giacomo, Viviani, Murolo, per non parlare del Cortese, del Basile, del Velardiniello. Importante è la considerazione della Cacopardo, quando dice che "i personaggi di Bernari…non cadono mai nel bozzetto, perché lo scrittore vi trasferisce con naturalezza l'elemento storico-documentario", cioè fa un lavoro di scandaglio di natura storicistica, nella migliore tradizione crociana. Quindi nessun folklore, niente pietismo né macchiettismo.
L'analisi di Carlo Bernari di Aurora Cacopardo si conclude, in modo analogo, con analogo metodo, nella trattazione della vita e dell'opera di Erri De Luca, alla luce, in paticolare del racconto "Montedidio", dove, anche se in modo molto diverso, lo scrittore mette in luce la sua visione di Napoli rapportata al sogno salvifico del volo a Gerusalemme di Rafaniello, ebreo errante, che trova rifugio nella Napoli devastata dalla guerra, dalla fame e dalla miseria, una Napoli europea nella sofferenza per dirla con Curzio Malaparte e la sua visione di Napoli rapportata al bumeràn atrettanto salvifico, nonché liberatorio, del protagonista ragazzino, onesto nelle sue movenze, come il padre scaricatore di porto, in una Napoli corrotta e ferita, vedi la vicenda triste del padrone del palazzo e di Maria.
Aurora Cacopardo felicemente conclude il suo itinerario critico dicendo che Erri De Luca "riesce, spesso,a scavare in profondità con risoluta delicatezza", trattando "così il comico, il tragico, la ricerca del sacro", senza perdere, aggiungo io, la sua vena poetica e fantastica.
Francesco D'Episcopo, da parte sua, analizza l'opera di Domenico Starnone e del meno fortunato Luigi Incoronato. Meno fortunato se si considera il tragico epilogo della sua vita, che, leggendo attentamente il suo racconto "Scala a San Potito", può dirsi già in nuce tanti anni prima.
Studioso di Incoronato, D'Episcopo ne tratteggia pienamente la biografia, elemento primo di ogni analisi successiva, sottolineando l'anno 1960, in cui non solo vince il Premio Napoli con il romanzo "Il Governatore", ma fonda la rivista "Le ragioni narrative", insieme a scrittori come Compagnone, Pomilio, Prisco e Rea, nonché accademici come Salvatore Battaglia e Leone Pacini Savoj.
La notorietà di Incoronato nasce, tuttavia, nel 1950 con "Scala a San Potito", edito da Mondadori, emblema della precarietà, delle gravi difficoltà di sopravvivenza che il popolo napoletano incontrò nell'immediato dopoguerra.
D'Episcopo, analizzando "Scala a San Potito" nota acutamente che l'anonimo protagonista del racconto "si identifica, nella sostanza, con l'autore stesso, il quale "sente… lo strano bisogno di tornare…sulle scale, che avevano ospitato una stagione straordinaria della sua vita, legata all'amicizia con l'altro personaggio centrale…Giovanni", tragicamente ucciso da se stesso e dalla sua disgraziata vita.
Non è il caso di entrare nella trama del racconto e la stessa cosa vale per "Via Gemito" di Starnone, per invitare i qui presenti a leggere personalmente questo libro "Napoli: luoghi letterari" che fa una lucida sintesi e invoglia a leggere questi autori, di cui si possono ora reperire i titoli in libreria. Tale sorte non è quella di Bernari, che costringe i lettori a recarsi in Biblioteca, il che farebbe pensare comeottima cosa la ristampa da parte di qualche buon Editore, almeno di "Speranzella".

 

GIACOMO GARZYA

Questo testo da me letto il 28 febbraio 2014, è stato in gran parte pubblicato in CHIAIA MAGAZINE, Anno IX, numero ½ - febbraio/marzo 2014.

PRESENTAZIONE DI GIACOMO GARZYA AL PAN DI NAPOLI DEL LIBRO "SOTTO UN CONTORTO ULIVO SARACENO" DI AURORA CACOPARDO.

 

È con grande piacere che mi accingo a presentare questo nuovo libro edito nel novembre 2015, da Iuppiter Edizioni , Napoli (pp.1-164) di Aurora Cacòpardo, di formazione crociana ( è su
Benedetto Croce la sua tesi di laurea in Filosofia teoretica). Aurora Cacòpardo, prima di tutto amica, poi nota scrittrice e saggista napoletana, collaboratrice di numerose riviste tra cui "Essere",
"Il Cerchio","Napoli City", delle pagine culturali del "Roma" e del "Danaro", mi ha onorato negli ultimi anni presentando i miei ultimi libri di poesie a Palazzo Serra di Cassano, con numerose
recensioni sulla stampa, mi riferisco al "Chiaia Magazine", una rivista che bene accoglie gli umori del quartiere e della città di Napoli. Per conto mio nel 2014 ho di nuovo avuto modo di
apprezzare le sue qualità
di critica letteraria e la sua vasta cultura recensendo su "Chiaia magazine" (IX, n.1-2, febbraio/marzo 2014), un suo libro "Napoli: luoghi letterari", scritto da lei e da Francesco D'Episcopo e presentandolo il 28 febbraio dello stesso anno alla Fondazione Humaniter, a Piazza Vanvitelli.
Ora, in questa prestigiosa sede del PAN, "Sotto un contorto ulivo saraceno" di Aurora Cacòpardo mette di nuovo in luce non più la saggista, ma la scrittrice di numerosi libri tra cui vale ricordare
"Un colpo inaspettato e altri racconti", "Carlo Emilio Gadda e il romanzo giallo", "La via che conduce a te".
"Sotto un contorto ulivo saraceno" è il titolo del libro, che in questa sede si presenta, ed è anche il titolo del racconto che l'Autrice vuole porre in primo piano, tra i tanti che compongono il suo libro.
Ad una prima lettura sommaria dei racconti, si percepisce, spesso, la presenza della natura, una nostalgia per il nostro passato ricco di eventi, di arte, di archeologia e di cultura.
Partendo dal dato concreto che il paesaggio, che spesso si incontra nei luoghi in cui viviamo e siamo cresciuti ed educati, non sia avulso dalla sua storia, una grande storia, quella della Magna Grecia,
in primis.
Un paesaggio marino, rurale a noi familiare, quello del Tirreno, del Mediterraneo, caratterizzato dalla sua celebre macchia mediterranea, da piante simbolo come l'ulivo contorto saraceno di Aurora Cacòpardo, su tutti e su cui aleggia la grande figura dello storico Fernand Braudel, celebre per tante opere, tra cui "Il Mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni" e per la citazione
cui fa riferimento Aurora Cacòpardo: "Il mare è destino"...".
I viaggi in luoghi lontani ed esotici potranno emozionare sicuramente, nelle albe, nei tramonti, nelle acque cristalline, e così via, ma avranno sempre qualcosa di incompiuto, di algido, considerando l'assenza di fatti, di eventi decisivi per lo sviluppo di una civiltà, di una qualsiasi civiltà.
Tuttavia questa realtà mediterranea idilliaca, bucolica, se vista nell'ottica romantica o di chi fa dell'amore per la natura una ragione di vita, non nasconde per la Cacòpardo e per tutti noi osservatori della realtà effettuale, aspetti inquietanti, quali il degrado ambientale favorito da insediamenti industriali di grande impatto ambientale, quali, per citarne qualcuno nel Sud: Augusta, Taranto, Bagnoli, insediamenti determinati da errate e miopi politiche governative, ma soprattutto il degrado causato da devastazioni vere e proprie, vedi nel casertano, la famigerata "terra dei fuochi", della delinquenza organizzata: Mafia, Camorra, N'ndrangheta, Sacra Corona Unita, che senza alcuno scrupolo etico, e per la realizzazione di profitti spropositati e con la complicità di tanti colletti bianchi, hanno distrutto aree vaste, riducendole a terre mortifere, aree, in cui tra l'altro, abitavano da generazioni.
Aurora
Cacòpardo divide il suo libro in tre sezioni: "Azioni", "Parole", "Sentimenti". Si tratta, in tutto, di ventuno racconti brevi, connotati, alcuni, da una sottile ironia, altri da una direi quasi surreale investigazione poliziesca, rientrando a pieno titolo, questi, nel genere del giallo, ma di un giallo ben distinto da quello di tanti autori, oggi di moda, che ne hanno fatto un genere di successo, ma nella sostanza non discostandosi da trame e riti consueti. Il genere giallo della Cacòpardo, si esaurisce in brevi ma efficaci pennellate, che mettono in luce la società attuale e non, senza perdere il senso dell'humor, in questo caso tipicamente napoletano e britannico, che come è noto, viaggiano sullo stesso binario.
La sezione "Sentimenti" si apre col racconto dell'ulivo contorto saraceno e si divide in due parti ben distinte, la vecchia Myriam, madre di Ester, che muore, "il sole allo zenit", "sotto l'ulivo, sul viso sereno un accenno di sorriso, i capelli scompigliati dal vento, le braccia al seno e le mani giunte sul cuore quasi in segno di preghiera", lei che vent'anni prima, credo, aveva vendicato la figlia Ester,
suo malgrado, implicata in fatti di spionaggio, più grandi di lei, uccidendo con due revolverate il responsabile della sua morte. Dal racconto esce uno spaccato non della città vecchia di Gerusalemme, città che per chi ha avuto, come me, la fortuna e l'occasione di visitarla, ha un fascino ineguagliabile, ma dei quartieri recenti, dove la paura di subire un attentato è permanente. Non a caso Myriam
si salva dall'esplosione di una bomba ad opera degli eterni nemici Palestinesi. Un racconto, quindi, in cui la serenità della morte è commisurata alla giustizia compiuta, che traspare in un passo della Cacòpardo (p.123), in cui si dice: "solo una cosa non si può condividere, il sogno di una giustizia veramente giusta".
Molto lirico, commovente, romantico di un non ancora sopito romanticismo, è il racconto "Un fiore dei mari del Sud", la storia di un amore coltivato lentamente, per poi sbocciare in un fiore impossibile, che morirà con Eugenio prima del tempo, per delle ferite di caccia, rendendo vana l'attesa della donna amata, col naufragio nei Mari del Sud di un matrimonio mai concretizzato, mai consumato.
Di sapore tardo rinascimentale la vicenda del povero professor Ricori, zoologo e botanico di fama, ucciso dal veleno imbevuto nelle pagine di un libro di caccia dei tempi di Caterina de' Medici.
In queste pagine Aurora Cacòpardo dà prova di maestria e, di nuovo, di grande e sottile ironia. Il professore già segnato dall'assalto di alcuni borseggiatori e non più in possesso delle sue
precedenti facoltà mentali, doveva pur prima o poi morire per la sua passione scientifica e antiquaria!
Non meno divertente è la storia, pare vera, della principessa russa con "al dito indice un grosso rubino che manda bagliori di sangue", che va a gabbare l'artista innamorato, immemore della
profezia d'una gitana. E viene spontaneo pensare che a queste donne dal fascino di una Carmen, sempre bisogna dare retta.
I rumori della guerra si snodano a Bagdad nel racconto più lungo, che chiude il libro, "Bagdad addio". Una vicenda umana e sofferta, che si svolge tra le due guerre del Golfo, e vede protagonisti Floriana e il Barone siciliano Ruggero Fonti di Santa Rosalia. Un amore delicato come le zagare di Sicilia, in un paese dove il profumo della sabbia si mischia con l'odore dello zolfo e degli spari
dei mortai. Si perderanno i protagonisti per un lungo tempo, ma lei, ormai suor Elisabetta, con nel ricordo il sorriso enigmatico della Sfinge a Giza, quasi a preconizzare un destino infausto,
si occuperà dei feriti negli ospedali da campo della seconda guerra del Golfo, molto più cruenta della prima e che farà di Bagdad un cumulo di macerie. Tra i feriti incontrerà il suo Ruggero,
ormai moribondo, e vegliandolo, morirà anche lei "fredda, ai piedi del lettino" di lui, di dolore. Una storia che non può non commuovere, una delle tante nei teatri di guerra, di tutte le guerre.
Nella sezione "Parole" vi sono quattro racconti, ma è nel primo "Mezzanotte all'Aquarium" che Aurora Cacòpardo esplicita in modo emblematico e drammatico, il dramma della società di oggi,
già emerso all'inizio della mia presentazione, a proposito della preponderanza delle mafie, della lotta non sempre vincente contro di esse, rappresentando esse una piovra dai mille tentacoli.
Il nichilismo, il qualunquismo imperante, soprattutto nella società meridionale, la politica come professione non più come una vocazione, l'assenza di valori nobili e di ideologie nelle nuove
generazioni, porta a un pessimismo a volte disperato che può spingere un trentenne come Carlo al suicidio. Ma il paradosso è che a uccidersi con un colpo preciso al cuore sotto due platani
nella Villa comunale, dopo mezzanotte, sarà Stefano, che aveva salvato Carlo dall'insano gesto, ma che ripercorrendo come in un flash la sua professione di Giudice, era arrivato a determinare
un bilancio passivo nella sua lotta alla criminalità, un bilancio che tra il dare e l'avere non lo aveva compensato per il tanto lavoro svolto, lui "uomo straordinario, energico, combattivo, un grande oratore", per dirla in poche parole un uomo dal forte carisma. Con questo racconto brevissimo di quattro pagine, Aurora Cacòpardo mette in luce tutto il suo malessere di cittadina, di intellettuale,
di donna, verso una società malata di un cancro non facilmente estirpabile e che dà poco spazio alla speranza.
La Prima parte del volume "Azioni" è la più ricca di racconti (dieci) ed emergono, in non pochi di essi, un'atmosfera spesso surreale, un certo pirandellismo di fondo, penso in primis a "Nero, il persiano", a "Menes il giustiziere", il cui finale è decisamente esilarante. In essi si trova l'humor noir, il genere giallo confezionato con malizia e con una scrittura decisamente favorevole a creare
sorrisi di compiacimento. Lascio al pubblico di lettori, dopo questo breve excursus, il piacere di gustare questa pregevole opera di Aurora Cacòpardo, prima di tutto amica e poi infaticabile
scrittrice.

 

 

GIACOMO GARZYA

PAN (Palazzo delle Arti di Napoli), 7 maggio 2016.

 

 

GIACOMO GARZYA SU ALEXANDRA MITAKIDIS. QUANDO LA FOTOGRAFIA INCONTRA LA POESIA


L'unità dell'arte, prima di tutto e la ritrovi sicuramente nelle rielaborazioni digitali delle fotografie di Alexandra Mitakidis, triestina di nascita ma cosmopolita nelle radici e nel cuore. Tali rielaborazioni
glossano, commentano con le immagini, le poesie dei suoi amici poeti.
È un'operazione dell'ingegno di Alexandra, che rende surreale, molto surreale, la sua fotografia realistica, che è il risultato di una tecnica consumata e di un gusto estetico, che fa intendere una cultura pittorica e fotografica ben sedimentata.
Il lavoro al computer di Alexandra, non è un superficiale artificio per rendere interessante un nuovo tipo di arte figurativa, ma racchiude una forte impostazione interpretativa, un intervento soggettivo su una fotografia digitale realistica solo in apparenza, ma che ha in sé un forte carattere soggettivo, come deve essere secondo le più moderne concezioni dell'arte. Ciò si vede di primo acchito, quando si nota nell'inquadratura della foto, un taglio molto personale, curato e ricercato, che è il telaio fondamentale per il definitivo intervento creativo, a tavolino. In questa seconda fase, quella della rielaborazione della foto, Alexandra si destreggia in modo sicuro e inusuale con i colori, che si sovrappongono a quelli originali o al bicromatismo del controluce, portando a un risultato che rende quasi irriconoscibile il nuovo lavoro creativo dall'originale. In questa fase, si intrecciano in modo visibile i motivi ideologici di Alexandra con le parole ispirate dei poeti, rendendo il tutto omogeneo e unitario, in sintonia con la nota tesi crociana dell'unità dell'arte.
La tendenza a sedimentare le nuove finalità della fotografia digitale, nell'immaginario collettivo, il nuovo linguaggio artistico, le nuove concezioni nella pittura, si possono riscontrare, almeno da un decennio, in non pochi artisti nel panorama internazionale. Penso in particolare al grande fotografo francese, Michel Kirch, che seguo con particolare attenzione da oltre un decennio e che ho potuto apprezzare per il suo coraggio nell'innovazione dell'arte fotografica. In questo periodo espone sue opere alla Biennale di Venezia, avendo già esposto tanto in Francia e in giro per il mondo, con grande successo. L'augurio che posso fare senz'altro a Alexandra Mitakidis è che possa avere anche lei il successo che merita, a dirlo un fotografo/poeta d'altri tempi e ben lontano dai nuovi orizzonti.

Trieste, 8 settembre 2022

GIACOMO GARZYA

in "Chiaia Magazine", anno XVII, numero 100 - dicembre 2022


Parigi, lungosenna, 20 aprile 1987
(Foto di Giacomo Garzya)



Istituto italiano per gli Studi filosofici, 29 aprile 2015 (Foto di Francesco Zoena)


IISF, 29 aprile 2015 ( Foto di Francesco Zoena)


PREFAZIONE DI ANNA ESPOSITO AL MIO TREDICESIMO LIBRO DI POESIE: GIACOMO GARZYA, "I SASSI PARLANO", Napoli 2016, Iuppiter Edizioni.

 

Le poesie di questa tredicesima raccolta del poeta Giacomo Garzya sono state lette da me quasi "in itinere"; un muto appuntamento sul cellulare notificato da un segnalino, mi invitava a leggere la poesia del momento; come una cronaca quotidiana, ogni stimolo diventava spunto per una trasformazione in versi del suo sentire.
E' stato facile penetrare nell'altalena dei suoi versi, che mi hanno indotto a riflettere ed hanno fatto emergere in me emozioni riposte in qualche angolo del mio animo, e sono tali riflessioni, tali emozioni che vorrei descrivere.
Il mio punto di partenza è stata la "parola", essa può cambiare uno stato d'animo, può trasformare l'umore, alleggerire o appesantire un evento, influenzare il proprio quotidiano, la propria vita, la vita di un paese...ed altro ancora. A volte le parole possono suscitare reazioni che inducono chi ascolta ad usare altre parole, dando il via ad un dialogo, un alterco, un confronto.
Le parole di un poeta, invece, quando penetrano nel profondo, inducono spesso al silenzio, quasi per non turbare il loro viaggio verso un luogo che è al di là della mente; esse hanno qualcosa di magico, possono trasportare l'essere umano in una dimensione di pura trascendenza, di religiosità, di connessione col divino che è in ciascuno di noi, dove non c'è più interferenza tra l'uomo e l'esistenza, ed il sentire personale diventa universale.....
" qui...alla Corricella c'è tanta luce, tanta quanta può avere l'umore benevolo di chi guarda oltre le nasse, oltre l'orizzonte, ché è oltre l'orizzonte che puoi incontrare la tua anima...."
"...chi è il padre di Dio? E tu rispondi, il cerchio , la retta, il punto non hanno un inizio, non hanno una fine. "
....queste parole inducono la mente a tacere, è nel silenzio che riecheggiano, è il silenzio che parla.
Le parole di Giacomo sono campane tibetane... emanano cioè vibrazioni che hanno il potere di far affiorare grovigli di sensazioni...blocchi emotivi...profonde ferite mai dimenticate... Qui l'emozione diventa parola!
"Le onde impazzite, racconta, del mare, quando esaltano e lacerano insieme l'anima, nel ricordo delle tempeste in ciascuno di noi, ...."
"Il delirio del vuoto, l'angoscia, come quando ci si perde per strada, nel freddo gelo
d'una metropoli e il cuore alla ricerca d'un segno impazza, d'un viso nella moltitudine,..."
Le parole di Giacomo rivelano la forza del suo sentire.....ovunque ho trovato la qualità dell'amore, espresso in tutte le sue forme, come energia prorompente che straripa dai suoi versi, ...l'emozione qui è incontenibile come uno tsunami, travolge il lettore, lo conquista, qui le parole sono forza universale, come la gravità , il magnetismo...
" Ti amo come l'acqua , il pane."
"Le carezze degli innamorati riscaldano i corpi nudi.....nell'amplesso ritmato su una rotaia, che corre verso un piacere infinito".
"Amo perdutamente riamato, libero, assolutamente libero, il mio amore..."
"la vita è un dono per chi...ha tanta voglia di amare..."
.....ovunque nelle poesie di Giacomo affiora un animo che non conosce finzioni o riserve, che non si nasconde, è un denudarsi, un abbandonarsi che assolve la sua natura umana e fa pensare alla qualità dell' "innocenza"...., non si copre l'innocenza, non simula, non si difende...l'innocenza vuole un cuore nudo...una mente sgombra da ipocrisie.
L'uomo "innocente" non indossa un salvagente, si espone al rischio di delusioni e sofferenze e vive senza requie il suo sentire.
"....ma tu c'eri, aggrappato al sonno, divorato dal sogno, che minava la tua pace, presago dei giorni a venire, o piuttosto specchio del tuo passato, ingombrante,
agitato, come le lenzuola smosse, ......"

"...lí sui pontili a guardare la tempesta, che deve passare...."

"...come pece il mare di notte, quando non vuoi ricordare il cuneo conficcato nella tua mente....".
Le parole di Giacomo, da lui sapientemente ordinate, danno luogo a versi di una bellezza che trascende le parole stesse ed il loro significato, esse danzano musicali e ritmiche come note, si possono ripetere all'infinito, come un mantra, perdendo forma per diventare solo armonia:
" la parola del cuore è nel suono dolce del suo battito..."
" Il sorriso improvviso del sole gli occhi distoglie dall'ombra oscura del mare...",
" Luna velata, come donna pudica, celi discreta il dolce profumo d'un amore sbocciato.... "
Altrove le parole diventano angoscia ....
"Era lunga l'attesa e le sue unghie erano assediate dai denti, corroso lo smalto, dilaniato l'indice......"
....si fanno taglienti come lame....
" Più del cobra può uccidere l'aspide, una vipera che serbi in seno, la lingua biforcuta"
.... fredde, metalliche...
" Era un robot ....rotelle su rotelle a stridere,...cigolava anche il cervello ...un robot a sangue freddo senz'anima...".
A volte sembrano quadri, dipinti con poche pennellate, ma pure così precisi e dettagliati nei particolari....
".....dove i colori delle reti delle case e dei gatti bisticciano tra loro a chi è piú forte e bello a chi è piú pastello, e tu regina, splendi col nome di Corricella, l'amore nel cuore sempre".
Nelle parole di un poeta anche la storia diventa poesia.
E qui penso che Giacomo Garzya ha superato Giacomo Garzya. Di singolare bellezza infatti è la storia del popolo cubano, raccontata attraverso gli occhi del Marlin con un ritmo cadenzato che cattura la mente e lo spirito. Ed è proprio il ritmo che Giacomo imprime al suo raccontare l'elemento che lo rende così attraente.
E' un poemetto talmente ricco di emotività e di messaggi che non è sufficiente una sola lettura per comprenderne la portata...si ha l'esigenza di leggerlo più volte e più si legge e più si scoprono angoli di infinita bellezza...ed ogni volta che si chiude la lettura non si chiudono le immagini e le emozioni che lasciano turbati.
Trovo superlativo il contrasto tra l'immagine iniziale dove le forze della natura sono in totale dinamica armonia:
"E il Marlin era lì ad ascoltare il brusìo sommesso del mare, tutto baciava le onde, il sole il vento, dell'oceano infinito......"
....e le immagini successive dove la stessa natura è pregna di orrore per le stragi che hanno sconvolto il popolo di Cuba.
" E il Marlin vide il cielo irrorarsi di sangue per le stragi degli indios....e vide gli avvoltoi cibarsi delle carogne dei vinti.....".
Scorrendo i versi si prova l'emozione di essere lì sul mare a guardare con gli occhi del Marlin la sequenza degli eventi, tragici atti di una storia, tra le tante, giustificata e dimenticata. Le parole qui si fanno " pietre" che gravano su una umanità che guarda impotente, ma non per questo meno colpevole, alle stragi del passato ma anche a quelle dei nostri giorni .
A volte dalle parole di Giacomo appare il suo "ego", il suo "sentirsi poeta", una sorta di "orgoglio intellettuale" fa capolino tra le righe...
"...tu puoi scoprire un luogo....da te dipende...tanta è l'abitudine a non vederlo per niente. Ma quando sei un poeta a te nulla sfugge...."
"........ma qual è il tempo di un poeta?....quello di vedere ciò che tanti non vedono...."
....e qui è molto facile che un lettore disattento diventi, a sua volta, vittima del proprio ego, dell'orgoglio di un uguale sentire, senza avere le parole di un poeta.
Se invece questi versi si leggono con animo ricettivo, sgombro da preconcetti, affiora la definizione che Giacomo stesso dà alla parola "poeta"....non è solo colui che va verso gli altri con l'alchimia delle parole...è poeta anche chi non ha questo dono ma del poeta ha l'animo....
"un animo osservatore fedele della umana natura..."
"...ma quando sei un poeta a te nulla sfugge....e quel luogo avrà una voce, un profumo, un alito di vento che lo renderà unico, riconoscibile solo a te che lo ami..."
Questi muti messaggi che arrivano da un luogo, da una persona, da uno stare, si "sentono"...."si riconoscono"....non occorrono parole per percepire quel profumo o quell'alito di vento....anche una sola parola potrebbe essere di troppo.
Ma allora quale ruolo hanno le parole di un poeta? Esse scuotono l'anima di chi le comprende, nella loro semplice armonia rendono consapevole del proprio sentire colui che le legge, rendono "visibile" al lettore l'amore verso un popolo, o verso un luogo, o verso la propria donna, l'amore paterno, l'amore profano, la gratitudine, la sofferenza, il dolore...
Ma non tutti "comprendono" le parole di un poeta, a volte esse non vanno oltre l'orecchio, così come la definizione di luce non aiuta un cieco dalla nascita a comprendere cosa sia la luce: costui potrebbe ripeterne la definizione in modo preciso, puntuale,.... ma non ne avrebbe conoscenza, mentre colui che la percepisce semplicemente sa … oltre le parole!
Allo stesso modo, la superficialità di chi non "sente" , non "riconosce", l'incapacità di guardarsi dentro, in generale lo stare alla periferia del proprio essere, fanno da ombrello alle parole, anche a quelle di un poeta.
Chi, allora, si lascia invadere dalle sue parole?
Colui che ha l'animo del poeta, anche se non ne ha le "parole", che vibrano e fanno affiorare ciò che già ha dentro di sé....che già esiste in qualche parte riposta del suo essere... , ma che non sa comunicare con la forza della poesia.
Questo è il grande dono che Giacomo Garzya ha e che fa a tutti noi quando usa l'alchimia delle parole!
Il senso di gratitudine che ora esprimo a Giacomo, sono certa, è comune a tutti coloro che lo conoscono e che lo amano.

 

ANNA ESPOSITO

 

 

LIBRI: "I SASSI PARLANO"

14/12/2016 di Maria Neve Iervolino, in IUPPITER NEWS

 

"I sassi parlano", ultima raccolta di Garzya, ma sarebbe assai errato ridurla a opera sentimentale, è piuttosto la rappresentazione di un viaggio che l'autore intraprende per il mondo, come mostrano le indicazioni geografiche a fine di ogni componimento: San Francisco, Santa Monica, Oswiecim ed altre ancora e che porta con sé il bagaglio di una importante intelligenza emotiva.

Una raccolta di poesie per vedere il mondo con il cuore
14/12/2016 di Maria Neve Iervolino

         

        Bellissima la tua voce,
           come l'onda delle arpe
                al tempo di Saul, Davide e Salomone.
           Bellissima la fiamma
            che brucia nel tuo cuore col mio,
                  in un amore infinito.

Questi versi di Giacomo Garzya datati 25 novembre 2015, evocano un amore che si dilata nel tempo, che dai palazzi ocra della bibbia arrivano fino al golfo napoletano dei giorni nostri. Le parole sembrano davvero portate dalla corrente di un fiume del passato arrivato al mare del presente, veicolo di un amore che il bagno nella fonte del tempo dell'umano e del finito non ha diminuito. Proprio questo sentimento di continuità affettiva lega I sassi parlano, ultima raccolta di Garzya, ma sarebbe assai errato ridurla a opera sentimentale, è piuttosto la rappresentazione di un viaggio che l'autore intraprende per il mondo, come mostrano le indicazioni geografiche a fine di ogni componimento: San Francisco, Santa Monica, Oswiecim ed altre ancora e che porta con sé il bagaglio di una importante intelligenza emotiva. La copertina dell'opera edita da Iuppiter Edizioni riporta la foto scattata durante uno dei viaggio del poeta di una pietra in forma di fiore, un elemento ibrido, recante per sua natura ruvidezza ma che per l'azione di un tempo lento e costante diventa bellezza e infine poesia; questo il messaggio che comunica al lettore l'insieme dei versi: la bellezza non è caduca, non è effimera, e può trovarsi in forme inaspettate. È anche e soprattutto la rappresentazione di viaggio nel tempo e nello spazio, un esempio unico è dato dalla poesia Marlin, per ammissione dell'autore stesso abbozzata a Procida, formatasi a Trinidad de Cuba e nata a Cayo Santa Maria, e che per questa sua natura composita è riportata in inglese e spagnolo, oltre che in italiano.
Garzya, poeta di lungo corso e fotografo oltre che storico e docente, ha anche il merito di aver reso questi concetti accessibili a tutti con la semplice linearità dei periodi e dei termini usati. Una raccolta consigliata a chi desidera vedere molti luoghi, anche la Napoli patria natia del poeta, attraverso la profondità di sentimento dell'autore.

 

MARIA NEVE IERVOLINO

Recensione su "Chiaia magazine ", marzo 2017


 

 

PREFAZIONE DI MARIA ROSARIA COMPAGNONE A GIACOMO GARZYA, "PETTIROSSO", Napoli 2015, M.D'Auria Editore

 

"Uno spirito inquieto che non si ripiega su se stesso e che non rinuncia mai a vivere nel mondo e col mondo", così Giuseppe Galasso definiva nel 2001 Giacomo Garzya nella prefazione della raccolta Maree.
In un'esperienza poetica tanto vasta e articolata come quella di Garzya (oltre venti anni di attività ininterrotta) la sua poesia, da qualsiasi punto la si osservi, appare in costante movimento o meglio, si costruisce e si presenta come un continuo viaggio, un viaggio compiuto non solo pellegrinando per i luoghi cari al poeta ma, e soprattutto, attraverso i gesti che costituiscono i piaceri semplici dell'esistenza umana.
È sufficiente un bicchiere di Spritz nel quale il ghiaccio che brilla rinvia all'amore negli occhi degli innamorati per delineare sulle labbra del lettore un sorriso, segno di un déjà-vu affiorato dal baule dei suoi ricordi. Piccolo e grande sono concetti relativi, quasi inadoperabili, se ci si accosta alla poesia di Garzya, poiché il più piccolo e semplice gesto può scatenare la più forte e profonda emozione, come un gatto che si arrotola al sole di mezzogiorno e rende, chi lo osserva, semplicemente felice.
Un insieme di luoghi circoscritti dunque, ben definiti nella loro storia e nelle loro caratteristiche, che racchiudono in sé l'universo intero e aprono a considerazioni sugli uomini, sul loro esistere, sull'amore, sulla storia e sulle storie di ognuno.
Poesie della realtà, di gesti abituali e ripetitivi come quello dei pescatori di Marina di Praia che
giocano a carte, a dadi/ sui tavoli/ dove scorre vino rosso/ sangue,/ per lenire la fatica del mare,/ per stordire la mente/ nei momenti d'ira del mare.
Il viaggio di Garzya prende avvio tra i boulevard di Bruxelles, città dove ha trascorso tante estati della sua infanzia e adolescenza, ripercorre località di mare a lui care e presenti nelle raccolte precedenti e si sofferma a Trieste, luogo d'elezione per la scrittura.
Trieste città-frontiera, crogiolo di razze, groviglio di Storia e cultura, Trieste e i suoi letterati i cui busti sono esposti di qua e di là per le vie: Joyce, Stuparich, Svevo, Saba. E a Joyce, Garzya dedica dei versi nostalgici nella malinconica consapevolezza che i suoi passi si sovrappongono a quelli lasciati, un tempo, dallo scrittore lungo il canale, versi che rappresentano una sorta di dialogo e un momento di meditazione in compagnia del padre dell'Ulisse moderno I tuoi passi sul canale/ caro padre d'Ulisse/ sono ora i miei passi/ e ricordano le tue sudate/ pagine, che passeggiavano/ in me ragazzo,/ alla scoperta della tua coscienza,/ come della mia,/ così diversa la percezione/ delle ore, dei minuti, dei secondi,/ così diversa la latitudine della mente/ in ciascuno di noi.
Il viaggio riprende da un continente all'altro e, nella penombra dei grattacieli di New York, Garzya emerge quale poeta del movimento urbano e accende con le parole, proprio come il riverbero sul fiume/ accendeva il cielo nel blu/ della notte,/ le corde d'acciaio del ponte/ più antico e bello vibrando/ al battito accelerato del cuore/ degli innamorati/il volto della New York più autentica dove l'immagine degli innamorati, il suono delle sirene delle navi, il volo dei gabbiani e il passo di chi vuole arrivare primo in una corsa contro il tempo, si confondono sullo sfondo con l'energia sprigionata dalle parole stesse utilizzate per descrivere queste immagini.
Potenza e sentimento che ritroviamo nelle tre poesie dedicate agli uomini e ai paesaggi del Nord, piccole scene rubate alla quotidianità e suggestivi paesaggi naturali, realizzati non con oli e pennelli o con la fotografia, di cui Garzya è altresì maestro, ma con la poesia e la ricchezza delle parole. I suoi versi sono soavi, scorrono con naturalezza e spontaneità come i paesaggi descritti e questo perché, com'è stato già notato in passato da diversi studiosi, la poesia non è per Garzya tanto una scelta quanto un bisogno, un'esigenza naturale al pari del mangiare o del dormire.
Un'esigenza che diventa vitale dopo i momenti tragici che segnano la sua esistenza, quando i versi si dispiegano in una lirica che evoca l'amatissima figlia perduta e rappresentano un meditare costante sull'esistenza dell'individuo, sulla sua singolarità dolorosa, sperduta in una cosmologia sconfinata, in una cosmologia il cui ritmo più prossimo, più avvertibile, è lo scorrere del tempo, il susseguirsi degli eventi e delle cose, l'alternarsi delle stagioni. Le poesie di Garzya rilevano l'esperienza di un severo disincanto dinanzi al senso della vita, ma sono anche un attraversamento incessante del pensiero in piena libertà, tra alti e bassi, tra slanci e silenzi.
Un attraversamento che si spinge fino a quel punto dove il pensiero guarda se stesso e vede il proprio limite. In quello stesso istante, però, s'intravede una boa di salvataggio e questa boa è l'amore. L'amore che traspare dall'abbraccio di due giovani innamorati, dallo sguardo della donna che si ha accanto, che si presenta sensuale e fisico tra due amanti o semplicemente si percepisce nel tenere tra le mani un animale fragile e indifeso come in Pettirosso, penultima poesia che dà il nome all'intera raccolta Saltella il mio cuore,/ batte batte col tuo,/ e le piume morbide come il profumo,/ la mia mano scaldano/ e batte batte/ il tuo cuoricino col mio/L'audacia di questo piccolo passeriforme a lanciarsi contro qualcosa di enormemente più grande di lui è tramandata dalla tradizione cristiana, secondo la quale il pettirosso si sarebbe procurato la tipica chiazza rossa sul petto cercando di estrarre una spina dalla corona posta sul capo del Cristo.
È l'allegoria dell'eroismo, dell'altruismo e della generosità, è la silenziosa storia di tanti piccoli Davide di cui nessuno parlerà mai, ma non per questo rinunciano a combattere. Ancora una volta Garzya sorpassa il punto del limite e dà una risposta alla paura della morte, dell'assenza e del nulla. Poche volte un libro, nella vita di un lettore, diventa una presenza insieme discreta e costante, e dalle sue parole, dalle sue rime, dai suoi pensieri, prende avvio la meditazione sull'esistenza dei singoli e dell'universo, di tutto quello che definiamo vivente. E ogni nuova lettura porta in sé sogni e visioni che hanno qualcosa di nuovo e di diverso, che solo un poeta dei paesaggi dell'anima può suscitare.

                                                                                                                      

MARIA ROSARIA COMPAGNONE

 

IL PETTIROSSO DI GARZYA di AURORA CACOPARDO, in "CHIAIA MAGAZINE" , dicembre 2015

 

“Pettirosso” (M. D’Auria Editore) è il nuovo lavoro di Giacomo Garzya, un patrimonio di unità e di storia, di sorprendenti intrecci culturali. Sembra che tutto il libro sia avvolto in una ragnatela di
tempo antico. Ritroviamo così luoghi a lui cari: Trieste, Sifnos, Kamàres, Kastro di Sifnos, Cicladi e poi il mare di Norvegia “ora placido come un lago all’incedere della prua, ora nemico quando i
venti impazzano”. È soprattutto l’ulissismo in Garzya, il rincorrere un’aspirazione vaga ma forte, un richiamo che può essere pericoloso, quello della “curiositas”, la sua irrequietezza si placa quando affronta in barca il mare: “...a Nord invocano le onde nel linguaggio del mare, a Nord, fino a dove tutto vive, nel candore bianco, con infinita dolcezza ci si lascia andare agli affetti profondi...”. È singolare che il testo poetico si apra con “Boulevard”, che descrive una realtà, ma che è anche la metafora cara a Garzya, che ci dà subito una possibile chiave di lettura perché oltre “l’asfalto di rugiada, ed i fanali che sfrecciano verso le stelle, c’è la necessità di una birra per spegnere nella gola un grido di solitudine”.
Da qui la necessità di leggere tra le pieghe, esistenziali e culturali ma anche di mistero e di rischio del nuovo testo come il poeta sia “l’uomo che va”. L’autore non vuole compiere un’operazione da
esegeta o da storico ma da poeta e come tale si accosta da lati e prospettive a quel mare in mezzo alle terre in cerca di confronti con la gente, di luoghi in cui nascano amicizie e si creino storie comuni
con gli eventi volendo trovare l’anima antropologica dei popoli e, nelle loro storie, forse svelare il segreto di un’esistenza. Garzya naviga il Mediterraneo e nel mito che attraversa la sua pagina poetica,
i simboli ed i sogni sono anche di vita. La ricerca del vento è una lunga memoria che si raccoglie, appunto, nella metafora del viaggio i cui elementi che danno senso si distribuiscono su di un tessuto ricco di riferimenti esistenziali: “qui alla marina / il Grecale gioca tra le onde / con eterno vigore / tormentato, vivo / e fluttua nell’immagine / di te, donna / che crei in osmosi col mare, / che crei chi vivrà in te l’amore / nel dolore, nella gioia della vita”. E ancora “come le radici, / i rami contorti degli ulivi / quando amoreggiano col vento, / così i nostri corpi avvinghiati / vivono l’estasi dell’eterno amore”. L’autore si serve della poesia per narrare la nostalgia di un tempo che è scomparso ma ritorna nelle sue forme metaforizzate in “Pettirosso” ma anche in gran parte dei suoi scritti: “sei sempre nei miei pensieri / e per quanto si possa trasmutare il ricordo / di quel terribile giorno, / nel dolce ricordo dei tuoi occhi lucenti, / la vita è un tormentato / peregrinare nell’Ade”.
La sua lirica cerca nella memoria un conforto dalla consapevolezza amara del precipitare di ogni cosa nel nulla: ma non vuole narrare solo una vicenda biografica, bensì esprimere ciò che rimane vivo del tempo perduto e la sua risonanza nell’anima. La poesia di Garzya, che è un viaggiare tra i sentieri di un incantesimo, non ha solo una valenza etica ma anche estetica e filosofica. Perché nei simboli del mito ci sono la memoria e il tempo e c’è sempre un percorso onirico che si intreccia tra i rivoli della parola che è essenza, rivelazione ed attesa.

 

IL MIO DODICESIMO LIBRO DI POESIE, Napoli 2015


 

 

IL MIO UNDICESIMO LIBRO DI POESIE: GIACOMO GARZYA, "UNA SPECCHIERA", Napoli 2015, M.D'Auria Editore.

La poesia di Garzya
tra tempo e malinconia

 

Pubblichiamo in anteprima ampi stralci della prefazione di Aurora Cacopardo al libro di poesie “Una specchiera” di Giacomo Garzya (M.
D’Auria Editore) in uscita a marzo.


Giacomo Garzya sembra un poeta della classicità greca, comparso per caso in questo secolo di crisi umanistica e di valori, e ricorda la stirpe di poeti pagani che, da un luogo appartato, contemplavano le stagioni, la natura, gli animali, i fiumi insieme alla dolcezza degli amori, alla voluttà della carne, alle inquietudini dell’anima e, soprattutto, allo scorrere del tempo “...su quella linea / che divide il possibile / dall’impossibile, / si demarca la tua voglia / d’amare una ninfa, / che è lì sulla battigia, / lì al sole tra l’acqua e la terra / tra l’orizzonte e il cielo…”. In tutta la raccolta di sessantuno poesie (più quattro traduzioni in inglese di Jeff Matthews) circola sovente una riflessione malinconica ma non sconsolata perché è innestata nell’albero della vita la cui impronta è una barca che naviga oltre l’estuario dell’esistenza, per alcuni, per il Nostro oltre i mari del tempo e dello spazio, come cantava il grande mistico e poeta spagnolo Giovanni della Croce.
La parola per il poeta è l’incontro tra luogo e tempo. Il mare è il labirinto ed è la ricerca della quiete; la navigazione è la metafora della vita che procede ora su mari tranquilli, ora in mezzo a tempeste. La malinconia non è mai una resa, per Garzya, bensì è piuttosto consapevolezza.
Il sentimento del tempo che cammina
tra le pieghe dei giorni e si fa memoria è un sentimento che ha attraversato tutto il ‘900,
caratterizzando quelle metafore di straordinaria valenza estetica ed esistenziale.
Molte poesie di Giacomo Garzya sono racconti marini e inni all’amore. Il lettore conoscerà il silenzio dei porti, lo stridio delle rondini e dei gabbiani, le voci dei pescatori, le voci degli amanti,
conoscerà il terribile vento di scirocco, vedrà tutti i colori del mare: azzurro, blu, verde, nelle cui acque annegherà i suoi pensieri talvolta sconsolati. Il lettore godrà anche della limpidezza
di un’alba come soffrirà della nebbia che tutto vela od offusca il cuore. Giacomo Garzya è come un viandante: si racconta, si dà un senso in un viaggio che diventa metafora del tempo.
Nella poesia Lo spazio offre l’interpretazione della propria esperienza al di fuori del tempo e della storia come esperienza assoluta dell’uomo. Affida, quindi, al suo vissuto biografico un significato che riguarda tutti recuperando una funzione sia alla poesia sia alla sua figura di uomo dolente: “…e se è vero / che la memoria / non ossida il tempo / è anche vero / che il luogo amato / caro è / a ciascuno di noi / e resiste all’oblio”. Nella poesia che dà nome alla raccolta Una specchiera, tutto sembra fuggire e scomparire, primo protagonista il tempo che muta e tutto fa mutare, come se la storia avesse smarrito il suo ritmo lineare e continuo. Avvertiamo la divinità nascosta del tempo, un passo misterioso e uniforme che spegne tutte le differenze tra il prima e il poi, tra passato e presente. Ma c’è anche la nitidezza della luce: “quando i campi sono battuti / dal sole / in un’orgia di luce e di vento / in un’orgia di vita”. Le ultime tre poesie del libro di Giacomo Garzya sono dedicate a Vienna, a Trieste ad alla sua Bora e al mito ed alle figure del mito che hanno evocato nel poeta tempi lontani : Saba, Svevo, Joyce, Kafka, Freud, Musil. Poeti, scrittori che hanno tramandato un pensare mediterraneo e poeti che sono rimasti dentro le maglie di una idea di consapevolezza ed il luogo e la memoria sono un incontro fatale che non solo si percepisce per un rimando di tempo ma si vive come una interiorità che diviene esperienza storica.

CHIAIA MAGAZINE • FEBBRAIO/MARZO 2015

 

 

PREFAZIONE A GIACOMO GARZYA, "UNA SPECCHIERA" DI AURORA CACOPARDO

 

Giacomo Garzya sembra un poeta della classicità greca, comparso per caso in questo secolo, in un periodo di crisi umanistica e di valori, e ricorda la stirpe di poeti pagani, che da un luogo appartato contemplavano le stagioni, la natura, gli animali, i fiumi insieme alla dolcezza degli amori, alla voluttà della carne, alle inquietudini dell'anima e soprattutto allo scorrere del tempo
"su quella linea / che divide il possibile / dall'impossibile, / si demarca la tua voglia / d'amare una ninfa, / che è lì sulla battigia, / lì al sole tra l'acqua e la terra / tra l'orizzonte e il cielo…".
In tutta la raccolta di sessantuno poesie (più quattro traduzioni in inglese di Jeff Matthews) circola sovente una riflessione malinconica ma non sconsolata perché è innestata nell'albero della vita la cui impronta è una barca che naviga oltre l'estuario dell'esistenza, per alcuni, per il Nostro oltre i mari del tempo e dello spazio, come cantava il grande mistico e poeta spagnolo Giovanni della Croce. La parola per il poeta è l'incontro tra luogo e tempo.
Il mare è il labirinto ed è la ricerca della quiete; la navigazione è la metafora della vita che procede ora su mari tranquilli, ora in mezzo a tempeste. La malinconia non è mai una resa, per Garzya, bensì è piuttosto consapevolezza. Il sentimento del tempo che cammina tra le pieghe dei giorni e si fa memoria è un sentimento che ha attraversato tutto il '900 caratterizzando quelle metafore di straordinaria valenza estetica ed esistenziale.
Molte poesie di Giacomo Garzya sono racconti marini e inni all'amore. Il lettore conoscerà il silenzio dei porti, lo stridio delle rondini e dei gabbiani, le voci dei pescatori, le voci degli amanti, conoscerà il terribile vento di scirocco, vedrà tutti i colori del mare: azzurro, blu, verde, nelle cui acque annegherà i suoi pensieri talvolta sconsolati. Il lettore godrà anche della limpidezza di un'alba come soffrirà della nebbia che tutto vela od offusca il cuore.
Giacomo Garzya è come un viandante: si racconta, si dà un senso in un viaggio che diventa metafora del tempo. È un tempo che si raccoglie tra gli scogli della memoria che recita le parole con le quali recupera il senso e il perduto. Nella poesia Lo spazio offre l'interpretazione della propria esperienza al di fuori del tempo e della storia come esperienza assoluta dell'uomo. Affida, quindi, al suo vissuto biografico un significato che riguarda tutti recuperando una funzione sia alla poesia sia alla sua figura di uomo dolente: "…e se è vero / che la memoria / non ossida il tempo / è anche vero / che il luogo amato / caro è / a ciascuno di noi / e resiste all'oblio".
Nella poesia che dà nome alla raccolta: Una specchiera, tutto sembra fuggire e scomparire, primo protagonista il tempo che muta e tutto fa mutare, come se la storia avesse smarrito il suo ritmo lineare e continuo. Avvertiamo la divinità nascosta del tempo, un passo misterioso e uniforme che spegne tutte le differenze tra il prima e il poi, tra passato e presente. Ma c'è anche la nitidezza della luce :"quando i campi sono battuti / dal sole / in un'orgia di luce e di vento / in un'orgia di vita".
Quasi alla chiusura del libro di Giacomo Garzya tre poesiesono dedicate a Vienna, a Trieste ed alla sua Bora e al mito ed alle figure del mito che hanno evocato nel poeta tempi lontani : Saba, Svevo, Joyce, Kafka, Freud, Musil. Poeti, scrittori che hanno tramandato un pensare mediterraneo e poeti che sono rimasti dentro le maglie di una idea di consapevolezza ed il luogo e la memoria sono un incontro fatale che non solo si percepisce per un rimando di tempo ma si vive come una interiorità che diviene esperienza storica ed espressione di una malinconia.
Il viaggiare per un poeta di confine o di frontiera come Saba ha sempre rappresentato un penetrare l'anima di un inquieto esistere tra gli urti della storia…"nella mia giovinezza ho navigato / lungo le coste dalmate"… i versi di Saba, che risalgono alla raccolta Mediterranee scritta nel 1946, sono un penetrare la metafora e la realtà del viaggio.
E la storia è dentro il vissuto, è l'esistere dell'uomo in un confronto con le civiltà.L'omerico senso del "ritorno" ed il dantesco peregrinare alla ricerca di un "oltre" chiudono la suggestiva raccolta poetica di Giacomo Garzya tra il mondo mitteleuropeo e le onde del suo Mediterraneo, in un cielo di azzurri voli che trasportano nostalgie, sogni, l'amore per una donna e talvolta incantesimi.

 

AURORA CACOPARDO

 


 

 

PREFAZIONE DI JEFF MATTHEWS ALLA MIA DECIMA RACCOLTA DI POESIE: GIACOMO GARZYA, "CAMPANIA FELIX", English translation by Jeff Matthews, Napoli 2014, M.D'Auria Editore (on the cover : Vesuviana, watercolour by Daniela Pergreffi).


 

I present these English translations of Giacomo Garzya's images of his native Campania very cautiously. After all, almost everyone has words of warning about translation:

"Translation from one language into another...is like gazing at a Flemish tapestry
with the wrong side out." (Cervantes)

"Poetry is what gets lost in translation." (Robert Frost)

Yet we all know the difference between a good translation and a bad one. And we all know how indebted we are to the centuries of translators who have given us with the literature of other cultures, ancient and modern.

In the sense of the 20th-century form known as "Imagism", Garzya favors precision, even isolation, of single images and clear, sharp language. As with all poets, he has a sense of cadence and euphony but is less interested in formal meter and rhyme than in the brief flash that lets the reader see something new. It might have been more convenient to present his poems in paragraph form and call it a prose translation. I have chosen instead to follow the erratic typographic form chosen by the poet, single lines (even of a single word), one above the other, to achieve the effect of a parade of images.

I have tried not to inject myself into his lines and have provided a few notes for some of his references that might not be familiar to the non-Italian reader. To the extent that I have succeeded, I am content; if I have failed, well, give my regards to Cervantes and Robert Frost.


JEFF MATTHEWS

 

 

PRESENTAZIONE DEL MIO DECIMO LIBRO DI POESIE: GIACOMO GARZYA, "CAMPANIA FELIX", English translation by JEFF MATTHEWS, Napoli 2014, M.D'Auria Editore (on the cover: Vesuviana,watercolour by Daniela Pergreffi)

 

Giacomo Garzya, affermato poeta e fotografo napoletano, in questo libro Campania Felix ( Napoli 2014, M.D'Auria Editore), destinato al pubblico di lettori anglofoni e italiani che vuole approfondire Napoli e i suoi dintorni mitici (Capri, Ischia, Procida, Positano, ecc.) al centro della nostra cultura, mette in luce attraverso le sue poesie, vere e proprie immagini in versi, scritte tra il 1998 e il 2013, tradotte in inglese da Jeff Matthews, la bellezza e il significato storico e interiore di luoghi classici, quelli della Campania. I luoghi, i siti hanno sempre rappresentato e rappresentano momenti evocativi di grande valore emotivo sia per chi vi nasce, sia per chi li vive e sia per chi li visita da turista. I luoghi sono la storia dentro e fuori di tutti noi e di essi non si può fare a meno se è vero che la memoria non ossida il tempo, cioè se la memoria permette che il tempo inteso come vissuto di un singolo e della collettività resista all'oblio. Ciò vale per tutti i luoghi che hanno un vissuto da raccontare, Napoli e la Campania in questo libro.

Giacomo Garzya, noted Neapolitan poet and photographer, presents
Campania Felix, a book of equisite poetic images for Italian and
English readers (English translations by Jeff Matthews) for those who
might want to know a bit more personally the mythical area of Naples
and the surrounding areas of
Capri, Ischia, Procida, Positano, etc., all parts of our European
culture. The poems were written between 1998 and 2013 and present the
beauty of these places, the classical, historical, modern--and the
personal. These sites, whether you were born here or are just seeing
them for the first time, are part of our collective cultural
consciousness.

 

RECENSIONI DI AURORA CACOPARDO al mio libro fotografico: GIACOMO GARZYA, "LA MIA NAPOLI", con prefazione di RENATA DE LORENZO (Napoli 2014, Arte Tipografica Editrice) e alla mia decima raccolta di poesie GIACOMO GARZYA, "CAMPANIA FELIX", Napoli 2014, M.D'Auria Editore.


GARZYA, VERSI E VISIONI
di Aurora Cacopardo

Una tantum desidero partire dal volto dell'autore e non dalla sua pregevole opera:"La mia Napoli".
Partiamo, dunque, dai candidi capelli che scoprono una fronte alta e dagli occhi azzurri che non guardano ma contemplano, occhi timidi. Ma solo i timidi, qualità sublime di questi tempi, riescono a scomparire per dare spazio agli altri; dietro la contemplazione c'è un "oltre" ed è questo"oltre" che pone al centro l'umanizzazione di una cultura. Le sue splendide foto - settantaquattro immagini- che la prefatrice, Renata De Lorenzo, definisce "un senso di racconto e ricerca di linguaggio",sono prive di presenze umane, ma sature della capacità di resistere allo scorrere del tempo e sono l'omaggio più bello, più sincero alla sua Napoli ed alla sua classicità. Sì, perché Giacomo Garzya ha focalizzato nella classicità la civiltà dell'uomo, non solo di ieri ma di sempre. La Napoli da lui ritratta è una splendida donna in attesa del nostro sguardo, è una città perfetta: si parte dalla fontana dell'Immacolatella, equilibrata, olimpica, per proseguire con via Caracciolo, porto, piazza del Plebiscito, zona che richiama la città angioina ed aragonese. Napoli si mostra senza veli, non ci sono elementi di disturbo. Lo sguardo di Garzya si sofferma su Castel dell'Ovo che è oggetto di inquadrature che "ne ripercorrono le stratificazioni architettoniche e politiche". Una città fuori dal tempo, dove gli spazi delimitati dall'architettura sono reinventati dagli scatti dello scrittore fotografo e vivono di vita parallela. Sono luoghi assoluti, modelli di immagine: il Vesuvio, sterminatore di una terra inquieta, le albe riprese dal corso Vittorio Emanuele, lo splendido veliero Amerigo Vespucci, sembra collegare il presente ad un passato antico. Garzya con i suoi scatti racconta il silenzio e la distanza e sembra invitarci ad impegnare la nostra capacità di osservazione
spaziale, quindi di vita, trasformando le immagini in oggetti su cui meditare. Il lavoro si chiude con l'immagine in bianco e nero del "Dio Nilo giacente", ancora una volta il riferimento al
Mediterraneo, l'identità della memoria e la capacità di penetrare l'anima delle civiltà.

***

L'ultimo lavoro di Giacomo Garzya,"Campania Felix", conferma la finissima qualità stilistica e psicologica della sua scrittura. Al centro della sua indagine è sempre il paesaggio: mare, porti, città,
colline, monti, ma questa volta la metafora del viaggio appare storica e metafisica insieme, la tematica talvolta elegiaca, i personaggi scolpiti nel tempo. Il poeta, in questa raccolta, abita quella sottile frontiera tra esperienza vissuta dell'io che si fa personaggio e la percezione del mondo con tutto il suo malessere ed il viaggio nella memoria ricostruisce il filo misterioso che lega l'amore al dolore. Per il poeta, forse, la morte è la tarma sulla trama non tessuta dalla spola ed allora quando la memoria evoca un'immagine, una voce, un sorriso, il lamento della cetra avvolge le pieghe del suo cuore non seppellendo il ricordo di una vita persa anzi tempo. Chiudo con una citazione che il professore Eugenio Mazzarella ha ricordato essere in quarta di copertina di Solaria del 1998, il primo volume di versi dell'autore: "Coloro i quali trovano nelle cose belle significati belli, sono persone colte. Per questi c'è speranza", da Oscar Wilde.

 

AURORA CACOPARDO

In "Chiaia magazine", Anno IX - numero 5/6- luglio/agosto 2014, p. 22.


 

 

NEL 2013

 

 

PREFAZIONE DI SILVANA LUCARIELLO AL MIO NONO LIBRO DI POESIE: GIACOMO GARZYA, "UN ANNO", Napoli 2013, M.D'Auria Editore.

 

Sono grata a Giacomo Garzya per l'invito a presentare il suo nuovo saggio di poesie Un anno, non solo per la testimonianza di stima nei miei confronti, ma soprattutto perché mi ha offerto l'opportunità di riavvicinare e ri-esplorare il mondo della poesia che percorre dimensioni emozionali con quei tracciati che arrivano diretti "al cuore".
Per me che poeta non sono e che avvicino nel mio lavoro psicoterapeutico la complessità del mondo umano con i suoi numerosi volti, spesso cupi, indecifrabili ed invalidanti lo scorrere dell'esistenza, questo testo mi ha permesso di assaporare e ripercorrere itinerari interni con modi e linguaggi che solo la poesia può descrivere con efficacia.
Leggendo il testo da subito si è immersi in uno scenario suggestivo e corposo, fatto di immagini, ma soprattutto di odori, sapori, colori e suoni in cui umano e natura si incontrano per consegnarci una miriade di stati d'animo dalle mille sfaccettature.
Sullo sfondo di tutte le produzioni poetiche della raccolta, si staglia il dolore silenzioso e riservato dell'autore, cui è permesso accedervi in punta di piedi e con estremo rispetto.
Il dolore che traspare nelle poesie di Giacomo Garzya appartiene a quella dimensione tragica dell'uomo che si interroga sul suo esserci nel mondo, sul mistero della vita e della morte, sul significato di esperienze e vicissitudini che popolano l'esistenza di ciascuno, cogliendoci sorpresi, disperati o muti nel "patire" la vita.
La nostalgia del passato, la forza delle emozioni, l'incedere superbo della morte nei sentieri della vita, si intrecciano nelle varie composizioni, lasciandoci rapiti nel riprovare e ritrovare atmosfere del presente e quelle del tempo che è andato: amore, solitudine, inquietudine, stupore, inganni, malinconia, condivisione, solidarietà e molto altro ancora si ritrova nel testo del poeta.
L'errare dell'uomo dentro e fuori se stesso è portato da immagini di luoghi e terre inondate dal sole, in cui sacro e profano si mescolano e si fondano nel Luogo della : " terra madre, lì dove ha tutto origine".
L'amicizia di affetti lontani e sempre presenti, il sorriso misterioso del femminile, la bellezza sconvolgente della natura, introducono l'autore in altri luoghi esterni ed interni che gli propongono il movimento incessante della vita che si condensa nel silenzio opprimente della morte.
È quanto si ritrova nel componimento Il Buio nero nell'immagine della grotta di Pertosa o sotto S.Anna di Palazzo: "quando si spengono le lampade , il silenzio assoluto al bivio è opprimente, così deve essere dentro una bara quando si spengono gli occhi per sempre".
Per l'autore il tempo scandito dall'orologio avanza con impassibile ineludibilità ed in esso giocano, come dentro le maglie di una sottile filigrana, il dolore della mancanza, della perdita, delle separazioni; il tempo interno, invece, rimane custodito nel presente vivo e costante della mente: potere della memoria, archivio della memoria, condivisione rappresentano le uniche sponde di spazio senza tempo, in cui passato e presente si coniugano nel : "niente è morto".
Tempo, spazio e memoria mi sembrano, infatti, gli assi portanti su cui Giacomo Garzya costruisce il suo linguaggio poetico dove il dolore di cui ci parla, e penso alla poesia Cinque anni, non arriva solo dalla mancanza, ma dalla tirannia dell'oblio che interviene inesorabile e con ritmo implacabile a consentire per chi rimane in vita l'amara e struggente consapevolezza della propria sopravvivenza.
La carica emozionale che suscita la produzione poetica di Giacomo Garzya mi ha riportato alla mente l'intimo legame esistente tra poiesis e sogno, messo in risalto anche in numerosi studi psicoanalitici.
Infatti, Jung in particolare, fra tutti gli psicologi del profondo, segnalando nel 1961 una significativa analogia tra poesia e sogno, scriveva nel suo saggio Simboli ed interpretazioni dei sogni che: "si ha l'impressione che nel sogno sia all'opera un poeta".
Al riguardo mi piace ricordare un passo illuminante di F.Hölderlin in cui l'autore descrive mirabilmente la poesia come capacità di percepire in maniera nuova ed originale il mondo e le cose del mondo: "Quando il poeta, in tutta la sua vita intima ed esterna, si sente unito con il puro risuonare della sua sensibilità originaria, e si guarda intorno nel mondo, questo gli appare nuovo e sconosciuto; la somma di tutte le sue esperienze, del suo sapere, della sua intuizione, del suo pensiero, l'arte e la natura, come essa si presenta dentro e fuori di lui, tutto gli si presenta come per la prima volta e, proprio per questo, nuovo e indefinito, ridotto a pura materia e vita…".
Nel sogno l'inconscio si manifesta attraverso costruzioni simboliche e metaforiche che parlano per immagini al sognatore ed individuano, se ascoltate, nuovi fronti e risposte ai problemi della vita; allo stesso modo, come ci ricorda Hölderlin, la poesia in quanto comunicazione e linguaggio, prefigura e consegna soluzioni originali agli interrogativi dell'uomo.
Nel linguaggio della poiesis e del sogno si intrecciano metafore che si espandono e si rivelano in immagini che aprono uno scenario di orizzonti semantici, da cui è possibile creare una nuova trascrizione di se stessi e del mondo: entrambi in quanto pensiero-sentire vivo, rappresentano quel dinamico fluire che lambisce inesauribili sponde a nuove prospettive.
Per dirla con Galimberti lo spazio del simbolo è il luogo della: " parola-guida (Leit-wort) che non dice, non enuncia, si limita a mostrare una connessione, o meglio una vicinanza, una prossimità che custodisce una ricchezza di significati non contenuti dalla parola, ma in cui la parola è contenuta" .
In questo senso la parola, nella poesia come nel sogno, diventa da parola parlata parola psichica che rivela ed illumina le immagini, incontrando le cose e rinvenendone il senso che, come rileva Galimberti : "non è ancora del tutto spento nella parola".
Il linguaggio "originario" della poesia e del sogno rimandano all'immaginazione creatrice, quale unità in cui l'esperienza stessa si muove e si svela; esperienza, come osserva Masullo, di un sapere simbiotico che precede la scomposizione della realtà in tanti variegati aspetti, in cui tutto, circolando in ogni parte, lascia emergere il Senso.
Ritornando al tema del Tempo, tra i protagonisti delle poesie di Giacomo Garzya, mi sembra che l'autore intenda questa dimensione come collegamento tra cambiamenti, come legame tra eventi trasformativi della propria vita, densi di rinnovate progettualità.
Il Tempo, da questo vertice di lettura, è l'accadimento con cui il nostro essere è invaso e scosso dalla differenza e dalle oscillazioni della vita; esso, come affiora con toccante profondità dalle poesie del testo, scompaginando le nostre continuità e certezze, porta in sé la percezione dolorosa della lacerazione e della rottura, ma anche il riavvicinamento alla vita ed all'ascolto delle differenti note del nostro esserci nel mondo.
In tal senso il linguaggio della poesia e del sogno esplorano quella dimensione interna che coglie e dà forma ad emozioni, segnalando il richiamo ad una differenza che, se avvertita, è capace di parlarci e farci intravedere altri confini.
Nella nostra epoca in cui è forte la tendenza a negare e ridurre le differenze, il linguaggio della poesia e del sogno esprimono in modi diversi, il desiderio della vita che, come osserva G. Gaglione: "non può che desiderare di differenziarsi e di continuare ad essere vita nel differenziarsi, proprio nel suo essere nel mondo e nella storia"..
Queste mie brevi considerazioni, sollecitate dalla lettura del testo Un anno, mi appaiono un importante e profondo invito a riflettere su quanto, specie in un'epoca di disorientamento, possa costituirsi come autentico riferimento. Tale potrebbe essere quel Senso che sgorga dalla poesis e dalle immagini del sogno, come nuova sondabilità alla significazione, in grado di ri-assegnare a ciascuno un orientamento interno che appare proprio nel momento in cui l'uomo si rivela a se stesso.
Di questo sono grata all'autore.

 

Napoli 11.11.2013

 

SILVANA LUCARIELLO

 

 

TRADUZIONE IN INGLESE DELLA RELAZIONE DI EUGENIO MAZZARELLA SUL MIO LIBRO: GIACOMO GARZYA, UN ANNO, Napoli 2013.


A Bandage on the Soul. Un anno by Giacomo Garzya

 

Once again, this latest collection by Giacomo Garzya confirms what we know his poetry to be. As Giuseppe Galasso noted some time ago in his preface to the second collection of poems, Maree, from 2001: the poetry is thoughtfully simple without losing liveliness and "spontaneous levity". Those were Galasso's words, and I believe that these latest verses totally confirm that judgement.

I have noted previously in the preface to Pensare è non pensare from 2009 that such colloquial poetry as we find here finds its substance, its metaphors in the topic of travel and in that which stays with us from the trip, real landscapes as well as those within ourselves: shreds of memories, visions that broaden a single instant and give space to an intuition (this is due, I think, to Garzya's photographic eye). They are traces that lend themselves to becoming memories, to being gathered in the heart of one whose life leaves us almost surprised that he still has the capacity to live: the surpise of "another night/and yet you sing/your mournful voice.../you who have lost so much/ your mother, your father/your daughter" (Another Night). These nights are still those after the loss, described and dated in Un anno. The verses retain that continuing and wondrous "still": "pilgrim upon this earth,/that is no longer yours/where tears furrow your face" (Saudade). These nights are when "the watch hands sweep ahead/so nothing is left/but to open the mechanism/ and smash it to bits" (My Friends), where "leaving pain behind/is the sweetest moment of the new day" (Leaving Pain Behind). These are still the nights that are left after Five Years from the loss of his beloved daughter, Fanny. It is difficult here to distinguish the man from the poet; perhaps it is not even fair to try to do that, engaged as he is in "forgetting in order to survive" (Five Years). Your heart may hand you an image, a voice, a smile, and you follow after your own personal Eurydice in that image, that voice and smile; yet, they are always beyond your reach, beyond your embrace, and you only remember how as a child she ran to grasp your knees (Eurydice, Campanule). In order not to die, you have to put your head aside and not even seek to use the gulls to speak with her because it is "too painful" (Five Years). There is a "contracted heart" (The Contracted Heart) in these poems. And it is a miracle that from this contraction of the soul you can still have "green wine running in the veins" ..."to the arcane sound of the sea", around a small table at the Santa Cruz (he names the place in surprise) with friends (Portugal). Green wine, the colour of life. How can it still run in the veins? That is the question of anyone who reads these verses of "a castaway without hope", an ever smaller dot on the horizon; a ghost, a ship of the self slowly sinking (Castaway). How is that possible? At a certain point there flickers the possibility of faith, faith that sees beyond this life, where "the sun withers from winter". On Temple Mount, "only on these stones/ is the resurrection of the dead". But it is just a flicker. Fundamentally, there is but one thing to hold our own ship, this ark aboard which love and memories survive, from sinking inexorably into a bottomless sea; and that is the philology of the here and now, his father's lesson, by which you learn to distinguish those truths that may be distinguished, the first alpha, the corruption of texts (Philology). The threads of affections and their surroundings (Sacred and ancient Lecce, and the figure of the grandmother; Secret and ancient Naples, and her trails), of an Epicurean soul, how such density of thought produces such spontaneous levity of word (I am thinking of the minimum biography, convivial dialogue, of Portugal, Via Veneto, Ciro). In short, the poems in One Year are a frame-by-frame view of Garzya looking at his own life and of himself looking at life, like homo patiens, almost split in two, a division that helps him to live, that gets him out from under the burden (Homo patiens). It is poetry that is a bandage on the poet's soul as well as on the souls of those who read him and measure their losses against his. It is also, however, a lesson that I would like to express with a quote from Oscar Wilde that was on the back cover of Solaria (1998), the small first voume of Giacomo Garzya's poetry: "Those who find beautiful meanings in beautiful things are the cultivated. For these there is hope." It is this capacity for beauty, to be taken by it even knowing that it is fleeting, even before you learn to cultivate it, that gives us a sense, in spite of everything, of that which is transitory: "the moment of sun" that "illuminates the beauty in life" (Moments of light), that puts names and faces on a life that the poet knows is fleeting. That is One Year, given to us to suffer with, to live, more rarely to rejoice in, "as the earth turns/takes with it the thoughts of all" (The Sphere).  

                                                                                                       EUGENIO MAZZARELLA

(traduzione in inglese del compianto amico Mark Weir)

 

 

RECENSIONE DI AURORA CACOPARDO AL LIBRO: GIACOMO GARZYA, UN ANNO, Napoli 2013, M.D'Auria Editore.

 

"Le sorprese di Garzya"


Il nuovo saggio di poesie di Giacomo Garzya ci dà modo di apprezzare la capacità con cui ci racconta una serie di sensazioni uniche dell'ansia metafisica e di una inquietudine che lo sorprende di continuo. Garzya ci offre con il suo "corpus poetico" ("Maree", "Solaria", "Passato e Presente", "Il mare di dentro","Il viaggio della vita","L'amour et le violon"ed ora "Un anno") una compiuta immagine di sé, della sua visione del mondo non felice, non idillica ma rischiarata da lampi di spiritualità che gli offrono la possibilità di fulminee intuizioni nell'indagare il mistero della vita e della morte attraverso felici sintesi poetiche:"...il buio è impenetrabile/ nella grotta di Pertosa/ o sotto Sant'Anna di Palazzo/ quando spengono le lampade... così dev'essere dentro una bara/ quando si spengono gli occhi/ per sempre"."...uscire dal dolore/ quando le frazioni di un minuto/ sono come ore.../ e ti sei svegliato e non riesci più a dormire/ e tu vorresti sbattere i pugni contro il muro/ perché arrivi l'aurora e l'alba e il giorno/ perché la luce ridia senso alla realtà delle cose...". Dai lavori di Garzya viene fuori la figura del poeta e dell'uomo di lettere dalla complessa personalità come si arguisce da liriche quali: "Saudade", "Amici miei","Homo patiens", testi di profonda meditazione, di armonia; ed ancora: "Masada","Ein gedi", "Kubbet al Sakhra", miti riletti e reinterpretati alla luce della sua sensibilità storica e consegnate nelle loro multiformi valenze all'uomo d'oggi. Leggendo le quarantasei poesie del saggio, emerge chiaro come l'essenza e la qualità emozionale delle immagini siano il risultato di una interiorizzazione dell'ambiente e del paesaggio, sia esso Lisbona, Gerusalemme, Tivoli, Roma, Capri, Napoli, Salina e Lipari sentito sempre come parte dell'anima. Il poeta è affascinato dall'azzurro del mar Tirreno, del Mediterraneo, accarezzato dal lieve vento evocatore di memorie. Tuttavia i luoghi, senza la magia della parola,sarebbero nulli. E' la parola, la fisicità della scrittura, a dare alla poesia di Garzya vitalità, energia, sicurezza, proprio attraverso il suo immergersi nella natura. Immagini oniriche, che tuttavia non sempre alleviano la sofferenza del poeta. Apparenze misteriose che si rincorrono, frammenti di ricordi e di volti, di raggi di luna e mormorio di vento colti e fermati dalla parola magica della poesia, unica a scorgere "la divinità che è dentro il paesaggio".

 

AURORA CACOPARDO

Articolo, in "Chiaia magazine", IX, n.1/2, febbraio/marzo 2014, p.30.

 

 

 

PREFAZIONE DI EMANUELA D'AMELIO AL MIO OTTAVO LIBRO DI POESIE: GIACOMO GARZYA, "L'AMOUR ET LE VIOLON", NAPOLI 2012, M.D'AURIA EDITORE.


Con estrema umiltà ed in punta di piedi mi accosto alla nuova raccolta di poesie di Giacomo Garzya "L'Amore e il Violino", onorata di aver potuto assistere alla genesi di questi versi in qualità di amica e di lettrice.
La sua nuova opera, prima di essere stata scritta, è stata vissuta andando a cercare la parte di sogno che gli spetta di diritto e di cui ci fa prezioso dono.
Il poeta è qualcuno che gioca con le parole o forse una persona il cui cuore si riversa su un foglio di carta o ancora, più semplicemente, un uomo che ama "raccontarsi" delle storie: Garzya si racconta a se stesso ancora una volta, i pensieri e i sentimenti sedimentati nella sua mente fioriscono, nero su bianco, come la cascata di perle di una collana rotta all'improvviso e la sua mano diventa muscolo involontario guidato dal cuore.
Delle ventotto poesie di questa nuova raccolta è evidente una interposizione tra natura, colori, sentimenti ed atmosfere in un viaggio nella quotidianità degli affetti. Quel che emerge è un susseguirsi di fili che si intrecciano tra loro a formare una trama di parole, un quadro dipinto attingendo colori da una tavolozza, quella della vita, che appare spesso sbavata e stinta, altre volte, invece, carica di mille colori sgargianti.
Le poesie mirano a mantenere costante un sobrio controllo sulle emozioni, ad incanalarle, forgiarle, evocarle e mescolarle con immagini, atmosfere e colori. L'accurata scelta della disposizione dei versi, il variare della loro lunghezza ed il loro diverso timbro indicano una passione formale mai sopita che in nessun caso soffoca od altera la dolcezza, lo spessore e il vibrare dei contenuti.
I colori accesi o cupi, i paesaggi mediterranei o nordici, la "pioggia battente", le "nebbie di Venezia", la "sabbia bianca coperta di brughiera" o il "tramonto rosso" non fanno solo da sfondo ai versi ma definiscono piuttosto stati d'animo che si alternano frequentemente. Ai momenti di passione e di speranza fanno infatti seguito attimi di tristezza e solitudine, come avviene nell'animo di tutti gli esseri umani: la poesia di Garzya diventa fotografia dell'anima ed è impossibile non rispecchiarvisi.
In "Amore e Violino" le poesie evocano pienezza ("la luce tu vedrai nel fondo del mare") e nostalgia ("Non posso accarezzare i tuoi capelli sussurrando parole d'amore"), speranzosa attesa ("I nostri sentimenti segreti usciranno con le rondini per librarsi nell'aria"), disillusa solitudine ("Tu non arrivi, tu non verrai, perché non dovevi partire…"), a ritroso nel viaggio dell'anima.
La poesia diviene dunque salvezza e liberazione, catarsi atta a superare ed allontanare il dolore e la nostalgia per il fatto stesso di riuscire a parlarne ed a conviverci, arginandoli attraverso un anelito di lotta per apprezzare le bellezze della vita ("E le labbra cercavano le labbra, la pioggia battente") e viverle pienamente.
Lungi dall'essere intimista, la poesia di Giacomo Garzya diventa umanistica, universale. Ci sono parole che catturano, colpiscono e non si sa se siano un pugno nello stomaco o una carezza all'anima, che permettono di riflettersi guardandosi in uno specchio, di sentirne il profumo sfuggendo al controllo dal tempo.
Al centro dei suoi versi c'è sempre il cuore dell'uomo in tutta la gamma delle sue percezioni, in tutti i suoi battiti. I temi sono molteplici. Dalla lettura delle poesie di "Amore e Violini" emerge che il perno dei suoi versi sia l'amore espresso in un linguaggio immediato, essenziale eppure profondo ed attento. Le poesie d'amore possono essere una risposta emotiva ad un evento o ad un momento passionale, altre volte sono più riflessive e cercano di donarci il senso di un'esperienza che si dilata ad un campo più ampio della vita, ad un amore senza tempo ed universale dove l'immagine di una donna evocata è solo il pretesto, lo spunto per ritrovare il battito del nostro cuore spesso sopito e la consapevolezza che le emozioni sono linfa vitale dei nostri giorni. Amore nel senso ampio, dunque, che include una profonda rivalutazione dei valori primari della nostra esistenza, quali il tema della morte e della fede ("Non passa un giorno senza che lei non preghi per me"), del ricordo della terra belga dell'infanzia e dunque delle proprie radici ("Correvo per la Campine…. sulla sabbia bianca d'erica coperta".), dell'amor filiale per il padre ("un bacio filiale per un padre inerme"). Ed ancora amore per il valore dell'amicizia ("i raggi del sole una bella amicizia riscaldano") e per la pienezza della vita ("ora ti abbraccio, fuoco…ed è musica il crepitio dei tronchetti che ardono").
Lascio per ultimo l'amore più grande della vita di Giacomo Garzya, quello per l'adorata figlia Fanny che ora vola alto accanto al sole e che lo sostiene amorevolmente nel suo dolore senza fine. Non citerò i versi specifici, mi pare di limitare, se non addirittura di "profanare", un ricordo ed un amore che appartengono solo a Giacomo e sua moglie Paola. Il lettore rintraccerà facilmente le due delicatissime poesie e saprà comprendere.


Grazie Giacomo, di aver avuto fiducia in me e di aver nutrito il mio cuore con le preziose stille dei tuoi versi.
Finché avremo dei ricordi il passato non morirà mai,
finché avremo delle speranze il futuro ci attende.

 

EMANUELA D'AMELIO

 

RECENSIONE ALL'OTTAVA RACCOLTA DI POESIE DI GIACOMO GARZYA, "L'AMOUR ET LE VIOLON"

 

GARZYA, POETA PELLEGRINO

Il mondo intero, scriveva Camus è disegnato come un grande punto interrogativo che ci costringe a levare la testa verso l'alto. Leggendo le poesie della raccolta "L'amour et le violon" (D'Auria Editore) si ha la sensazione che l'autore cerchi mediazioni verso l'infinito, piste di decollo verso l'assoluto. Giacomo Garzya si racconta, si dà un senso, in un viaggio che diventa metafora del tempo, tempo che si raccoglie tra gli scogli della memoria, le cui parole recuperano il senso ed il perduto. Alcune poesie fanno riaffiorare alla memoria una musica leggera, invitante, antica : parole semplici e necessarie. Esse parlano di colori, di fiori, delle nebbie di Venezia che si sveglia dal suo torpore, del giardino della Menara, dei tamburi a Djemaa, delle spezie del souk. È la memoria del poeta, è la sua capacità di tracciare per immagini la forza dei sentimenti ed a comporre figure di gioia e di malinconia. In altre liriche della raccolta tutto sembra immobile, nell'attesa di una partenza temuta, di un addio che lascerà la fragile quiete del cuore dell'uomo. Il poeta diviene viandante, tra il vissuto e la contemplazione per cercarsi, in un andare che deve somigliare ad un pellegrinaggio. Giacomo Garzya, viandante-pellegrino, conosce le pieghe della solitudine senza mai assentarsi dalla vita. Anzi resta dentro la vita anche quando le parole spariscono e restano solo i desideri, i sapori, i destini. Gli orizzonti del poeta sono nel viaggio anche se è convinto che gli approdi non sono sempre consapevolezza e che gli arrivi si intrecciano con le partenze ed i ritorni vanno sempre oltre "Itaca". Non so se Giacomo Garzya abbia superato Itaca o sia dentro Itaca, so che questo libro va oltre il misterioso che incanta.

 

AURORA CACOPARDO

in "Chiaia Magazine", marzo 2012, p. 30.

 


 

 

RECENSIONE DI AURORA CACOPARDO ALLA SETTIMA SILLOGE DI POESIE DI GIACOMO GARZYA, "POESIE" (1998-2010), Napoli 2011, M.D'Auria Editore.

 

GIACOMO GARZYA, IL POETA ARGONAUTA

L'invenzione artistica procede per due strade diverse: la prima è la mimesi, che viene dall'osservazione del mondo e dalla capacità di raccontarlo.Il libro di poesie di Giacomo Garzya presenta cinque raccolte dai nomi significativi: Solaria, Maree, Passato e presente, Il mare di dentro, Il viaggio della vita, tanto da definirlo un raccordo tra la memoria che si fa nostalgia e il sogno che recita mistero. Ma è anche il tempo del viaggio, un lungo racconto che raccoglie echi di emozioni, sentieri incantati, ricordi di mare, di amori, di stagioni, di deserti, di sogni. L'analisi dei testi di Garzya, frutto di una sorvegliata interiorizzazione, induce a pensare ad un itinerario, lungo il quale si incrociano il grido di morte che sale dal mondo dei vivi e l'inutile dolore del vuoto per la perdita della persona cara che produce l'inevitabile sperdimento esistenziale per cui la vita sembra essere solo un vuoto deserto. Un segno fatale, un segno di morte, ma presentato con calmo distacco che suona, nel contempo, come serena accettazione dei limiti umani e come sfida al potere che ci sovrasta. Grande è la capacità del poeta di descrivere il mondo. Si tratta di descrizione fatta per immagini. L'invenzione artistica procede per due strade diverse: la prima è la mimesi, che viene dall'osservazione del mondo e dalla capacità di raccontarlo. La seconda è l'opposto della prima cioè dilatazione e trasformazione del mondo, moltiplicazione del reale ed in ciò si concentra il meglio degli spunti creativi del poeta. Se il nuovo nasce dall'antico, ed il futuro proviene dalla memoria del passato, Garzya compie il suo viaggio da argonauta dentro la poesia dei lirici greci. Scrivere è andare lungo i sentieri del tempo, per il poeta il tempo si è lasciato intrappolare dal mistero e dal segreto delle parole che si fanno sangue, vita e sogno negli anni lunghi della memoria che è in noi con le sue immagini e i suoi personaggi. In un tempo in cui le memorie si custodiscono. Ed è questo il tempo del viaggio.

AURORA CACOPARDO

Articolo pubblicato in "Chiaia magazine", VI, n. 5, maggio 2011, p.40.

 

 

RECENSIONE DI ENZO PAGLIARO A GIACOMO GARZYA, "POESIE", Napoli 2011


La colorata sensibilità di Giacomo Garzya
È difficile dire "cose migliori del silenzio" ma Giacomo Garzya c'è riuscito:
per i tipi (preziosi) di D'Auria ha dato alle stampe ma soprattutto alla passione per la poesia la raccolta completa di tutti i suoi viaggi poetici più qualche inedito.
E nonostante i tempi diversi di produzione e i diversi paesaggi che si incontrato in questo viaggio e gli innumerevoli ritratti che appaiono sulle pareti della memoria e gli stati d'animo che vibrano lungo
tutto il libro e i sentimenti che aleggiano sereni tra una pagina e l'altra... ecco nonostante questa (apparente) diversità rimane ben visibile la traccia indelebile della sua sensibilità. Sì, questa è la chiave
di lettura delle poesie di Giacomo Garzya.
E se è vero che "il dolore disordina gli alfabeti" è anche vero che le parole di Giacomo hanno ricomposto - nonostante il dolore - un alfabeto tutto suo: l'alfabeto - appunto - della sensibilità.
Sensibilità "fotografica" lungo i sentieri dell'amata Grecia e la ricolorata (da lui) Procida; sensibilità "fisica" nei ricordi di e con gli amici; sensibilità "metafisica" per richiamare alla memoria di tutti
l'adorata Fanny; sensibilità "lirica" davanti al prodotto dell'arte di altri; sensibilità "allegra" nel dare alla vita lo spessore che merita, comunque. Che il silenzio non ti faccia mai da guida, Giacomo.

ENZO PAGLIARO

Articolo pubblicato in "La discussione" del 19 giugno 2011.

 


 

 

PREFAZIONE DI RICCARDO MAISANO ALLA MIA SESTA RACCOLTA DI POESIE: GIACOMO GARZYA, "IL VIAGGIO DELLA VITA", Napoli 2010, M.D'Auria Editore.


A PASSO D'UOMO

 

L'eco del viaggio, lungo ormai e ininterrotto, che Giacomo Garzya compie da molti anni e che risuona inesorabile ancora in questi versi, è un'eco di passi umani. Non solo di reattori, motori a scoppio o ruote di treno, ma eco di passi lenti e cadenzati di un uomo che a piedi percorre la sua strada, e poiché cammina a piedi ha modo e tempo per fermarsi a guardare, a sentire e a ricordare.
La parola del viandante che discorre con se stesso, e ci rende a tratti partecipe dei suoi pensieri, dà voce ai colori dei paesaggi rivisitati, all'evocazione di persone e cose antiche e recenti, al silenzio di un vuoto irrimediabile. Il diario, scandito dalle date e dai nomi di luogo che suggellano i componimenti, disegna un itinerario che tocca località vicine e lontane, scenari diversi e contrastanti come gli stati d'animo del pellegrino che si racconta.
Col suo patrimonio ricco di umanità e di cultura Giacomo percorre il suo cammino, sempre più erto e accidentato, senza rinunciare a porsi con sommessa e pudica ostinazione le domande che nessuno dotato di senno e sensibilità può sperare di eludere, e che si trovano anche qui ad ogni pagina, esplicite o sottintese, e specialmente, in modo esemplare, nelle poesie "Le nostre vecchie chiese" e in "Dio è la natura". Gli interrogativi dell'uomo che cammina e che pensa rimangono aperti: sono consegnati al lettore perché continui - o incominci - lui stesso a viaggiare guardandosi attorno, e a riflettere guardandosi dentro.
Un giorno, molti anni fa, io mi trovavo alle pendici della collina napoletana su cui la mia famiglia vive da quattro generazioni. Una interruzione improvvisa nel servizio della funicolare mi induceva ad affrontare a piedi la salita, dal momento che la mia congenita impazienza insofferente mi precludeva la possibilità di speranzose attese di un sollecito ripristino o di lunghi giri contando su inaffidabili mezzi alternativi. Ad un crocicchio tra i vicoli dei quartieri spagnoli incontrai Giacomo che scendeva, a piedi anche lui per tradizionale e antica educazione familiare. Sostammo a parlare per un poco. Quando gli dissi del mio proposito e gli mostrai la strada che mi accingevo ad imboccare, lui fece quietamente un mezzo giro su se stesso e con un ampio e lento gesto del braccio indicò una via a me ignota che si apriva dietro di lui, e mormorò: " Di là si arriva anche prima ".
Nei versi pregnanti e pieni di risonanze di questa silloge io vedo per me un'altra volta l'indicazione - preziosa, forse perché inconsapevole - di una strada. Questa volta però non mostrano una strada lineare. Quella che, dall'incerta fede di varie poesie conduce alle domande senza risposta dell'ultima, è una via che si muove attraverso il tempo e lo spazio disegnando non più la tradizionale linea retta tracciata dalla collaudata visione cristiana dell'esistenza, ma i cerchi concentrici che, con la pioggia di sassate che si abbatte sulla superficie in apparenza stagnante della vita, intersecano passato e presente, storia e immaginazione, speranze e rimpianto.
Le parole, che Giacomo ha intrecciato nella corona di passioni, reminiscenze e smarrimenti formata dalle sue poesie, chiedono al lettore di essere comprese nel senso pieno e vero. Cercano una sponda. Ognuno di noi è perentoriamente chiamato a rispondere come sa e come può. La risposta mia alla voce colta e gentile, ma anche severa e implacabile di Giacomo, mi sembra di averla trovata in una pagina di quello sconfinato libro di Dolores Prato che è Giù la piazza non c'è nessuno: " Sballottamento di passato, presente e futuro è la vita dell'individuo; sballottamento di terremoti, valanghe e guerre la vita della terra, che insieme butta all'aria case, animali, alberi e uomini. Gli sballottamenti coprono e scoprono, seppelliscono e disseppelliscono ".

 

RICCARDO MAISANO

L VIAGGIO DELLA VITA, Napoli 2010.


RECENSIONE DI ROSSELLA GALLETTI AL LIBRO: GIACOMO GARZYA, "IL VIAGGIO DELLA VITA", Napoli 2010.


GIACOMO, IL POETA ERRANTE


A due anni dalla morte della figlia Fanny, esce "Il viaggio della vita" (M.D'Auria Editore, 2010, euro 12.00), la raccolta di poesie scritte da Giacomo Garzya, poeta e fotografo napoletano, tra il 2007 e il 2010. Presentato lo scorso 16 giugno nello Spazio la Feltrinelli di piazza dei Martiri, a parlarne con l'autore c'era il professor Giovanni Starace, psicoanalista: "L'integrazione tra affettività e sessualità, -spiega- tra vita e morte, passione e razionalità è una cosa complessa". Eppure gli opposti non sono altro che le due facce di una stessa medaglia, tutto sta nel saper cogliere negli interstizi dell'animo umano quella sottile linea che allo stesso tempo separa e unisce: quello dell'artista è un inno contro il manicheismo, perché "l'urlo scomposto, trascendente, gotico, / manifestare può tanto la vita come la morte, / come l'urlo liberatorio dopo un travagliato parto, / come l'urlo straziato per la scomparsa di un figlio". La vita è un grande racconto e man mano gli anni passano il racconto si modifica, quello che un tempo era amore ora è un vuoto che dilania lo stomaco. Quando Marco Polo riferiva al Grande Khan le cose meravigliose che aveva vedute durante le spedizioni nello sconfinato impero cinese, spesso raccontava di odori e sapori della sua infanzia a Venezia. Viaggiando ammiriamo paesaggi naturali e culturali sconosciuti, ma compiamo anche un percorso che ci riporta a ritroso nel tempo, a dar senso ad eventi passati nei quali riscopriamo l'altro che è in noi e che, manifestatosi in un'epoca lontana, riemerge proprio nella conoscenza dell'alterità. Il Garzya sa bene che si viaggia "per cercare quelle immagini / che avevo da sempre / nella mia mente, / forse viaggio / per ritrovare il senso primo / che mi tormenta da sempre, / forse il viaggio / è un tornare indietro / per preservare qualcosa / di allora". Ma a un certo punto, prima o poi, il cammino è "bruciato dal fulmine": un anelito resta però in chi vive, nell'eros, pulsione sessuale contro la pulsione di morte.

 

ROSSELLA GALLETTI

Articolo pubblicato sulla rivista "Chiaia magazine", anno V, n. 6-7, giugno-luglio 2010.

 

 

ACO

 


 

 


Nella prestigiosa cornice di Palazzo Serra di Cassano, all'Istituto italiano per gli Studi Filosofici, il 24 aprile 2009, Patricia Bianchi e Valerio Petrarca hanno presentato il quinto libro di poesie di Giacomo Garzya, "Pensare è non pensare", con prefazione di Eugenio Mazzarella ed edito da Bibliopolis (Napoli 2009), dopo "Solaria" (1998), "Maree" , con prefazione di Giuseppe Galasso (2001), "Passato e presente" (2002), "Il mare di dentro" con prefazione di Patricia Bianchi (2005). "Pensare è non pensare", uscito a un anno dalla tragica scomparsa di Fanny Garzya, figlia dell'autore, avvenuta il 6 febbraio 2008 a Castel Volturno, è connotato da due anni di poesie e l'ultimo è pregno del disastro umano che egli ha vissuto, come si evince anche dal titolo della raccolta. Patricia Bianchi, che già aveva presentato, in questa stessa sede "Il mare di dentro" nel 2005, ha espresso la sua esperienza di lettura delle poesie, che vengono definite di complessità e dense di significati, che portano a riflettere su ciò che è l'esperienza umana di Giacomo Garzya, in un momento storico della sua vita, che lo porta a rivedere il suo concetto di natura, non vista più come trascendenza, ma come realtà tragica, realtà della coscienza dell'uomo, e in questo si è riferita ad Auerbach. Un libro, nella sostanza, del presente, aperto ad interrogativi esistenziali, più che nelle raccolte precedenti, dominate dal paesaggio. Interrogativi posti a se stesso, ma anche agli altri. Patricia Bianchi si è soffermata, poi, come all'inizio lo stesso autore, e poi Valerio Petrarca, sul titolo della raccolta e ne ha messo in luce la profondità, nella misura in cui esiste il dolore col quale dialogare con la parola, per continuare a esistere. La poesia è fatta di parole, senso della vita, conoscenza, che creano un contatto con noi stessi, in rapporto con la natura e con gli altri da noi. Patricia Bianchi ha concluso l'intervento dicendo che la raccolta di Giacomo Garzya è un libro di comunicazione e di conoscenza, con parole pure nella loro essenza, è una poetica pura. Valerio Petrarca, antropologo, dopo la lettura di una scelta di poesie da parte di Paola Celentano, madre di Fanny, e di Giovanna Marmo, anche lei poetessa, ha posto l'accento sulla capacità evocativa della poetica di Giacomo Garzya, rapportando la poesia e il mito e soffermandosi sull'anticogito cartesiano, a proposito del titolo della raccolta, nel suo significato più profondo, coerente con la coerenza della poetica di Garzya, vista come sottrazione al dolore, come dimensione che trattiene dalla coscienza, quindi dal dolore.Valerio Petrarca ha testualmente detto "noi siamo dove non pensiamo, quindi un Cartesio messo sotto sopra". L'ultimo anno della raccolta consente di articolare il rito protettivo dell'esistenza attraverso uno stile proprio, che permette di dare senso alle cose, proprio quando non pensiamo. L'autore ha chiuso la serata, leggendo e commentando alcune poesie significative della sua poetica, alla luce del tragico evento che ha sofferto e ha confermato l'interpretazione che delle sue poesie hanno fatto i presentatori.

 

 

RECENSIONE DI FABRIZIO COSCIA A "PENSARE È NON PENSARE", NAPOLI 2009, BIBLIOPOLIS

NAPOLI CULTURA - IL LIBRO

 

I versi di Garzya e il canzoniere della vita perduta


Ciò che colpisce, nella poesia di Giacomo Garzya, è la sua nitidezza o, come scrive Eugenio Mazzarella nell'introduzione al nuovo volume Pensare è non pensare (Bibliopolis, pagg.71, euro 6,50), la "semplicità pensosa del suo dettato". Sono versi di una immediatezza difficile da incontrare nel panorama assai variegato e confuso in cui si dibatte ormai da decenni la poesia contemporanea, eppure colti, pieni di reminiscenze e citazioni della tradizione lirica italiana e classica : dal Montale più colloquiale a Pascoli. Da Leopardi fino a Catullo. Quest'ultima raccolta è un canzoniere dalla doppia anima. Una prima parte caratterizzata dal topos del viaggio, declinato come metafora, evocazione sensuale di paesaggi amati ("Montauban", "Karnak"), e intima geografia degli affetti ("Sabbie e pietre", col suo suggestivo incipit : "Tutte care / le sabbie, le pietre della mia vita"). Poi c'è una cesura improvvisa, ma in qualche modo annunciata in versi che hanno una oscura quanto terrifica forza presaga (soprattutto in "Ai nostri morti") : la tragica scomparsa dell'adorata figlia Fanny. L'irruzione della morte trasforma i versi di Garzya in un sommesso e commovente epicedio in memoria della figlia : "Il tuo sorriso / il tuo gioioso canto / a tanti mancano", scrive in "Un fiore reciso", come a voler rendere collettivo, universale, un dolore privato. Laddove prima dominavano colori e "giochi della luce" e il grido festante della vita ("Hey Jacomo!! / jejeje") adesso c'è solo il freddo del "vento marino" che gela dentro e una memoria che si fa allo stesso tempo consolazione e dolore.
L'io poetico si muta, così, in un Orfeo alla disperata ricerca della sua Euridice nel regno dell'Ade, con l'unica arma del suo canto. Salvo ritrovare una scintilla di speranza nell'armonia degli elementi ("Sopravvivere"), pur nella consapevolezza di una coscienza per sempre dilacerata ("L'io diviso").

 

FABRIZIO COSCIA

Articolo pubblicato su "Il Mattino" del 3 luglio 2009.

 

 

RECENSIONE A PENSARE È NON PENSARE DI ANTONELLA CARLO

 

Garzya, antologia in memoria di Fanny

CULTURA. "Pensare è non pensare" è l'opera in versi del professore napoletano dedicata alla figlia scomparsa un anno fa. "È un'occasione per ritrovare il passato".


Una scrittura poetica che palpita di antichità e memoria : Giacomo Garzya, professore e fotografo, esperto cultore di storia sociale e religiosa, ha appena pubblicato la silloge in versi "Pensare è non pensare" (Bibliopolis, 2009). La raccolta perfeziona un lungo lavoro di scavo nella dimensione della letteratura, come testimoniano le precedenti opere "Solaria" (1998), "Maree" (2001), "Passato e presente" (2002), "Il mare di dentro" (2005) : oggi, con la tragica maturità legata alla scomparsa dell'adorata figlia Fanny, Garzya ritrova un'ispirazione nuova, che fonde scrittura e sapere, esperienza diretta e cultura classica. Manifesto dell'intera antologia è, come dice lo stesso Garzya, il componimento "Forse oggi la natura non vedo più", in cui lo scrittore riflette la visione di un cosmo costellato da intimi desideri : in questa prospettiva, luoghi come la toscana Cala Violina e la nostra vicina Marina del Cantone diventano paesaggi surreali di un viaggio suggestivo e simbolico. "L'esperienza di fotografo - dice Garzya - mi fa immaginare la letteratura come un'occasione per andare innanzi grazie a scatti diversi, spostandomi dai luoghi esterni agli angoli labirintici della sensibilità individuale". Per il lettore che affronta l'affascinante parabola di "pensare è non pensare", ecco un iter particolarissimo, capace di ritrovare le matrici originarie della natura: se Miseno rimanda al patrimonio della mitologia classica, anche l'isola di Capri nasconde musicali ed antiche leggende popolari, mai dimenticate alle soglie del terzo millennio. "Questo libro - continua lo scrittore napoletano - si è innestato su una tragedia privata, che ha sconvolto la mia famiglia. Eppure la scrittura è stata un'occasione per ritrovare il passato, per dare un tributo alla figura straordinaria di mia figlia, una ragazza solare ed appassionata, negli studi così come nella vita". Scorrendo le pagine della raccolta ci si ritrova quasi spiazzati da uno stile lineare e chiarissimo, che rispecchia, con dotta armonia, una profonda e sapiente fisionomia culturale. "In tutto ciò che scrivo, - racconta Garzya - traspongo i retaggi di esperienze per me fondamentali, come i viaggi in Europa compiuti da piccolo con una famiglia che era, nella sua stessa struttura, cosmopolita. "La mia opera letteraria è, pertanto, un tributo amorevole a quanto mi ha fatto crescere , nella cultura e negli affetti". La bella prefazione, che il professore Eugenio Mazzarella dedica alla raccolta è, dunque, un ulteriore tributo all'armonia limpida della parola di Garzya : grazie a questa geometria, che contiene dolore e dramma, lo scrittore ci regala un unicum letterario, in grado di rimanere sospeso tra gli abissi sentimentali dell'animo umano. La semplicità delle passioni, trasposte con saggezza sulla pagina letteraria, è il vero valore dell'opera di Garzya : a chi legge resta il privilegio di abbandonarsi all'incanto, lasciandosi trasportare sull'onda di venti eterni, che spirano con la stessa e suadente forza dai tempi del Pelide Achille.

 

ANTONELLA CARLO

Articolo pubblicato sulla rivista "Chiaia Magazine", Anno IV - n.5, maggio 2009, p.12.

 


 

 

TRADUZIONE IN INGLESE DELLA PRESENTAZIONE di EUGENIO MAZZARELLA della mia mostra fotografica IL MARE CHE NON SI VEDE, ALL'ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI, PALAZZO SERRA DI CASSANO (Napoli, dal 24 febbraio-al 18 aprile 2006)

 

Il mare di dentro, il mare che non si vede di Giacomo Garzya

I

l mare che non si vede [The sea that can't be seen]. This is the title for the photographs that Giacomo Garzya puts on show this evening. As far as I am aware they cover virtually the whole arc of his public activity as a photographer. His first exhibition, Forti affetti [Strong affections], was held in 1994, and the first of these prints dates from 1995. In these same ten years or so Garzya has published four collections of poems, Solaria (1998), Maree [Tides] (2001), Passato e presente [Past and present] (2002), and Il mare di dentro [The sea within], 2005, and there is an obvious association between the latter and this evening's exhibition. To approach the photographs in front of us, to enter into them, as it were - leaving aside considerations on their sheer beauty, or the exquisite quality of the images - I believe it is necessary, at least en passant, to refer to the way in which Garzya, the photographer and poet, has evolved in this decade. This surely is a corollary of the anthological criterion, based on a thematic diachrony, he himself has chosen.
In his preface to Maree of 2001, Giuseppe Galasso remarked that Garzya's poetic world was "simple, albeit thoughtful; composed, even though vital". And "the spontaneous levity" with which "his verses [flowed], in spite of being so clearly honed and polished", showed no tendency, nor did it elicit any such propensity in the reader, "to lay claim to extreme tribulations, invidious truths, or unsuspected and improbable depths". Garzya's poetry was just what it appeared to be: "natural and credible in its human roots and in its bearing; the reader did not have to seek it out in the inner reaches of the temple", since "he could encounter it, simple and genial, on the threshold and had no difficulty in entering into a reassuring, if tenuous and subdued, colloquy".
In speaking of poetry Galasso here testifies to that colloquial poetics which Garzya had entrusted to the camera lens right from his first exhibition, Forti affetti, in 1994. The critic Valeria del Vasto drew attention to precisely this poetics in her review of the exhibition. With acute sensibility she saw the Leitmotiv of the journey, the exhibition's predominant theme, as being based, undeniably, on the places visited, "but above all on his own sentiments, states of mind, emotions", eluding "the dramatic immediacy of certain images of Capa or Cartier Bresson", or "the plasticity of the bodies photographed by Mapplethorpe". Garzya tends rather to rely on the observation of nature and of places, identifying with them, transferring "to them a sentiment, an 'affect', but one which is 'mediated, sublimated, precisely through contemplation". It is unusual for these pictures to narrate "the details", to dramatise the unique quality of the image.
In front of the photographs on view this evening, the insights contained in this review evoke a different register, and one which Garzya has frequented over these ten years. It is always a question of contemplation, but homing in on detail: the focus is not the satisfying sense of the whole but the disturbing kernel of the photograph. Naturally in this decade - and Garzya himself offers a diachronic approach to his activity - this is the aspect of his colloquial poetics that he has tended to play down. This is where we find the rapt concentration that seems to predominate, not the fusion with the observed "whole"; the concentration on oneself, the detail of "who we are" which is not absorbed into the whole but comes out in the detail, which commands our field of vision.
Valeria del Vasto refers to the poetics of Picasso in commenting on the images in Colori di Procida, 2002: "Painting is the craft of a blind man. He does not paint what he sees but what he imagines, what he says to himself about what he has seen". At this point the discourse on things turns to a mere indication of presence, of one's own being; from intimacy and confidence with things to the interior dimension: "the sea within" that is brought out, seeing "the sea that can't be seen".
This iconic shift was prefigured in the most recent collection, Il mare di dentro, 2005, as Patricia Bianchi acutely pointed out: "So Giacomo Garzya's poetry is indeed essential, or rather a pursuit of the primary essences of man by listening to one's own ego; it is no coincidence if the topic of poetry recurs as a search concerning the essential principles of life itself, namely water, air, earth and fire".
In the verses of Il mare di dentro, the equilibrium of one's being in the world is a state that has been attained which has nothing innate or even apparently "ingenuous", as was the case in the first collections. The day is not in itself "beautiful and joyful", it becomes it if one's life's work - using the eye as medium - is successful.
Writing poetry is
Capturing what is real/ and transfiguring it with the imagination/ this is beauty and makes the day joyful./ Making simple what is complicated/ discovering the harmony of lines/ in the shifting light/ in the scudding clouds/ this is beauty and makes the day joyful.
Writing poetry is crossing the boundary From shadow into light:
Sometimes/ artistic creativity/ and reflection/ on life's circumstances/ generate burnished oak leaves/ in sarcophagi imbued/ with light and hope/ in which death lies down serenely/ to live again.
If form is achieved then death lies down serenely.
Behind the apparent colloquialism of a life, which in another fine invention seeks expression
For a friend:
Downwind/ the sense/ of your existence./ Downwind/ you sag/ withholding the impulse/ to live amidst the billows/…,
we find in Garzya the communication of a tragic, reserved attitude to life, ready to position himself downwind, and sag, withholding the impulse to live amidst the billows, trusting in form to establish character.
This tragic, reserved attitude to life was already discernible in the Apollonian light which he sought out on the journey to Greece narrated in Solaria, 1998. Here it is the encounter between "joyful" and "limestone", nature's statuary, which aroused emotions he had already felt in Capri, on the Amalfi Coast and in Salento, "those, too, Greek lands". As in the vision of
Màni :
Stark, a well, a tower/ fertile tears/ Màni you dream of.// Rare tears/ deep limestone/ you hide.// Only sun-baked/ do you temper character,/ the Doric, I mean.
Here surely there is an anticipation of the insight Garzya reveals, almost without realising it, in this exhibition: the tension between Apollonian and Dionysiac, whose solution in form is the task of the poet and artist. In Nietzsche's characterisation of its Greekness, its mode of seeing and feeling:
"In the immediate comprehension of the figure we exult, all forms speak to us, there is nothing which is indifferent and not necessary. Nonetheless, in spite of the supreme life of this dreamt-of reality, there is still quite distinct in us the sentiment of its illusion" . Thus Nietzsche in The Birth of Tragedy. He himself emphasised "illusion", and added: "I could cite more than one testimony and the declarations of the poets".
In front of Garzya's photographs, and as we retrace his development as a poet, we come across just one such testimony and declaration. There is here what Nietzsche referred to as a "Homeric ingenuity", meaning one which is apparent, a "perfect foil for the Apollonian illusion"; perhaps some of its pristine integrity is lost in these images, but yet it wins through thanks to a sort of "metaphysical consolation", what Nietzsche saw as the true genius of the "profound Greek character, uniquely endowed for the most delicate and aching suffering, which has contemplated with a keen discernment the terrible process of destruction of the so-called universal history, as indeed the cruelty of nature, and runs the risk of desiring a Buddhist-like negation of will", and which art saves, and through art saves itself - life.
Today we can see that "Doric repulse", in the pursuit of form, of life's tragic essence, in the sentimental dialogue with nature and human artefacts which Garzya has conducted in his career as a poet and photographer, a latere as it were in the photographic counterpoint anthologised in this exhibition, giving way to the metaphysical drama of the detail, which is nonetheless held fast by form. And to some extent it seems always to have given way.
On seeing "the sea that can't be seen", as in these photographs, when "the sea within" is brought out, there is a change of tone in Garzya's photography, and likewise in his on-going rapport with words. From being syntactic, exemplificative, rational, this rapport becomes paratactic, indicative. … One step further on, a well-pondered step in the domain of feeling, on the part of someone who chooses not to gybe, to sail on at a leisurely pace, together with what is dear to him. After all, the destination is the same for all, whether we race or dawdle; it's just that those who speed on miss the scenery.

 

From the presentation of the exhibition "Il mare che non si vede", Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Palazzo Serra di Cassano. Naples, 24 February 2006 (traduzione in inglese del compianto amico Mark Weir).

 

EUGENIO MAZZARELLA

 

 

IL MARE CHE NON SI VEDE : La fotografia aiuta a sentire il mare

 

La passione del ricercatore che diventa cura del particolare. Quella che ti fa alzare all'alba per giorni solo per trovare la luce giusta. La passione del visionario che vuole catturare l'immagine vista dall'anima. Quella del viaggiatore in cerca di emozioni da fissare su una diapositiva. È dalla passione, quella per la fotografia, che nasce "Il mare che non si vede", la mostra di Giacomo Garzya di scena nelle sale di Palazzo Serra di Cassano, presentata nel corso di un incontro con il fotografo/poeta, moderato da Enzo Pagliaro, con l'intervento di Eugenio Mazzarella, preside della facoltà di Lettere della Federico II, e Maurizio Ribera d'Alcalà, oceanografo e docente all'Università Parthenope. La personale propone tredici immagini - stampa digitalizzata su supporto 50x70 - riassunto estremo ed esempio significante dei tredicimila scatti realizzati negli ultimi venticinque anni da Garzya. E di cui l'autore ricorda con stupefacente precisione non solo tempo e luogo, ma anche esposizione, diaframma, pellicola ed obiettivo. Uso intenso e studiato della luminosità: scatta seguendo, ed inseguendo, la luce con la sua Reflex il fotografo napoletano, utilizzando un esposimetro mentale - il suo cervello - piuttosto che meccanico. E si fa affascinare dal mare, passione dominante, presenza forte ed immanente che rappresenta ancora per certi versi una grande incognita, un mondo da scoprire ed esplorare. Evocativi i titoli scelti per le immagini della mostra, logica conseguenza del rapporto visibile tra fotografia e poesia nel suo lavoro. "Il progetto che ho in cantiere già da qualche tempo riguarda i quattro elementi - racconta l'autore - ho sempre amato viaggiare e continuerò a farlo. La scelta di esporre solo tredici fotografie - aggiunge - è stata dettata dalla volontà di non disperdere l'attenzione dello spettatore". Sentire il mare, percepire l'infinito attraverso luce e colore. Ecco allora la risacca marina sulla spiaggia rossa di Santorini, una barca solitaria in mezzo al nulla, le romantiche iridescenze delle acque appena increspate dalla brezza e le atmosfere cupe dei gorghi di Capri ("Sono rimasto quasi sorpreso dall'impatto così forte dei faraglioni"). Fino ai ricercati giochi di luce sull'acqua, con l'obiettivo che curiosamente attraversa una caraffa di vino per fotografare il percorso del sole al tramonto.

 

TIZIANA TRICARICO

Articolo pubblicato ne "Il Mattino", 5 marzo 2006.

 

 

IL MARE CHE NON SI VEDE

Napoli: le foto di Giacomo Garzya
27.03.2006

 

"Il mare non bagna Napoli", titolava mezzo secolo fa la scrittrice Annamaria Ortese. Coperto dalle navi alleate in occupazione nel porto, non poteva essere liberamente osservato e goduto. E anche oggi il mare di Napoli c'è ma non si vede: quasi un trucco, un'illusione. Città di mare, ma chi se lo ricorda? Per molti è una cartolina. Di fatto le acque sono estranee a molti partenopei, tanto che fino a poco tempo fa raccontare di un tuffo consumato a Mergellina o a Posillipo equivaleva a narrare un'autentica impresa. Innocenza del caso, è proprio Napoli ad ospitare la mostra fotografica di Giacomo Garzya "Il mare che non si vede", in esposizione a Palazzo Serra di Cassano fino alla fine di marzo. Tredici fotografie per una rassegna che è una costola di un precedente lavoro dell'artista, dedicato al tema dei quattro elementi. Le riproduzioni sono state selezionate per suggerire un nuovo e privilegiato punto d'osservazione, quello dell'uomo sull'elemento marino.. In questo caso è il mare delle coste greche come di quelle campane o altre, molto più esotiche e dai nomi incomprensibili, a prestarsi a questa prospettiva antropocentrica, suggerendo a Garzya quell'idea di bellezza "che ha senso solo se c'è l'uomo che sente e vede. Egli solo è in grado di percepire, di cogliere l'altro da sé. Senza l'elemento uomo niente avrebbe senso specifico; con la sua presenza l'armonia della terra diventa sensibile, tangibile e può suscitare forti emozioni". E il segno di Garzya indica proprio che l'uomo manipola la natura, anche solo osservandola. Alcune fotografie sono più esplicite : in esse il mare si riconosce, quasi con sollievo, tra i colori alterati, tra le luci che quando non sono in bigio e scuro, hanno i riflessi febbrili del rosato e caldi dell'oro fuso. In altre immagini bisogna avere bene in mente il titolo della mostra, per accorgersi del mare. Un'acqua nascosta, lunare, molto sensuale. Acqua e sale, un voyeur ci va di lusso, vedo e non vedo, la più classica delle fascinazioni. Intuire e non focalizzare, perché l'occhio vuole illudersi di guardare solo ciò che desidera e quando lo desidera, perché la sottrazione acuisce la malia e l'intervallo che corre tra la sparizione e la riapparizione è un ammaliante mistero, consumato in un frangente incontrollato. E se il mare è un mistero, Garzya lo avverte non di meno come un "archetipo, la ragione di tutte le cose, nell'acqua innanzitutto, quella che ci avvolge e ci protegge sin dalla nascita, quella che muta ad ogni soffio di vento".

 

GIOVANNI CHIANELLI

Articolo pubblicato ne "la rivistadelmare.it", 2 aprile 2006.

 

 

IL MARE CHE NON SI VEDE

"Il mare che non si vede" di Giacomo Garzya, fotografo e poeta napoletano, è la mostra che si è tenuta dal 24 febbraio al 18 aprile 2006 presso l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici a Palazzo Serra di Cassano. Estratte da un lavoro sui quattro elementi, le tredici fotografie esposte evocano un percorso di riflessione su ciò che può offrire la natura all'occhio che guarda con attenzione, al viaggiatore che non corre e che ama contemplare. È un mare astratto, interiore, che pone l'uomo a considerare il tutto in modo antropocentrico, moderno. Le chiavi di lettura di queste opere artistiche, nell'intento dell'autore, sono molteplici, ma su tutte prevale " l'idea che la bellezza del mare, come di ogni cosa, ha senso solo se c'è l'uomo che sente e vede. Egli solo è in grado di percepire, di cogliere l'altro da sé. Senza l'elemento Uomo niente avrebbe senso specifico; con la sua presenza l'armonia della terra diventa sensibile, tangibile, e può suscitare forti emozioni". Le fotografie esposte, stampate in formato 50 x 70, rappresentano la sintesi estrema di un lungo percorso, quello di chi ha sempre cercato " l'archetipo, la ragione di tutte le cose, nell'acqua innanzitutto, quella che ci avvolge sin dalla nascita, quella che muta ad ogni soffio di vento".
A queste considerazioni dell'autore, vorremmo aggiungere che noi frequentatori dell'Appennino della Campania, abbiamo particolarmente caro il nostro mare che è specchio di quei monti.

 

FRANCESCO del FRANCO

Articolo pubblicato ne "L'Appennino meridionale", Anno III, fascicolo I, Napoli 2006, p.117.

 

 

RECENSIONE AL MIO SITO WEB www.maree2001.it

 

Giacomo Garzya e il moto-immagine
Viaggio nel sito www.maree2001.it
di Massimiliano De Francesco
05.10.2007

 

Il frammento, sia "scritto" che "fotografato", è il genere prediletto (e predi-guardato) dall'artista partenopeo Giacomo Garzya, classe '52, professore di lettere, poeta, saggista, ma soprattutto diarista dell'anima. La sua indole di riempitore di taccuini la si può comprendere meglio sfogliando www.maree2001.it, il fresco e nuovo sito (webmaster Enrico Veneruso) dove i versi e gli scorci dell'autore trovano la loro fortunata isola on-line, contaminata esclusivamente dal virus della memoria. Tanto mare, giochi di onde, rocce, sole a mille, trionfi di fiori, vulcani ed eruzioni di nuvole, cieli in progress, acqua, aria, terra, fuoco: l'album intimo e non intimista di Garzya raccoglie un'infinità di scatti che trova il suo approdo, anche se l'impressione che si ha è che ogni scatto, superando il già visto input contemplativo, non approda ma parte. La poetica dell'artista napoletano non prevede il fermo-immagine perché si basa sul moto-immagine: tutto ciò che fotografa non si ferma, ma continua ad andare (occhio alla sezione "elements") e a muovere luce (vedi la sequenza di immagini dedicata a Ischia, Capri e Procida e il "ritratto" del Mar Rosso). "Il mio percorso poetico e fotografico - afferma Garzya - vuole essere come un diario dell'anima, il che potrebbe far pensare alla monotonia, ma se il ricorrere delle stagioni è lo stesso, le situazioni sono sempre diverse e anche il tono e la luce cambiano". Pensiero chiaramente impressionista che mette le scarpe e procede in ogni carrellata di foto, senza mai tentennare e smarrire la trebisonda. Il sito - che prende il nome dalla raccolta di poesie "Maree", pubblicate dall'autore nel 2001 - ha il talento dell'immediatezza: è facile da consultare e la struttura consente con pochi passaggi di entrare nel giornale intimo di Garzya. La photo gallery prevede dieci stanze (Vesuvio, Naples, Capri, Ischia, Procida, Elements, Landscapes, Travels, Greece, Flowers) e ogni sequenza di immagini è supportata da una didascalia che indica il luogo e la data del reportage.

 

MASSIMILIANO DE FRANCESCO

Articolo pubblicato ne "La rivista del mare.it" , 8 ottobre 2007.



 

RACCOLTA DI POESIE (QUARTA), "IL MARE DI DENTRO"


GIACOMO GARZYA,
"IL MARE DI DENTRO", NAPOLI 2015, M.D'AURIA EDITORE
M. D'AURIA EDITORE

PREFAZIONE DI PATRICIA BIANCHI

 

Si staccano dal flusso dell'eccesso inquinante le parole di Giacomo Garzya, e anzi ogni parola sembra recuperare un suo nucleo di pregnanza segnica in quanto è messa in rilievo, quasi pensata come isola, e nello stesso tempo lanciata come ponte verso altre catene di parole per ricreare più profonde significazioni.
Un verseggiare per ritmi compatti e forme brevi che sembra voler rispettare l'ascolto e il silenzio dell'Altro, un ritmo poetico che intende definirsi anche per contiguità con lo spazio del silenzio. E forse la poesia del Mare di dentro è anche poesia di ascolto del sé e dei più profondi bisogni emozionali, di ricognizione del sé e del profondo rapportarsi all'altro.
Così con una sobria retorica punteggiata da clausole di colloquialità si viene svolgendo un testo profondamente coeso, in cui ciascuna lirica scandisce una nota necessaria dell'armonia complessiva.
Il lettore-ascoltatore ne ricava un'impressione di equilibrio, poiché Garzya ha lavorato per sottrazioni rispetto ai contrappesi della letterarietà e alla ridondanza dei valori semantici dei singoli termini, confermando una sua linea di ricerca poetica verso uno stato di leggerezza che presuppone l'allontanamento da ogni piatto realismo discorsivo ma anche da ogni intellettualistico simbolismo metaforico. Lontane dal preziosismo dell'ornato e dalla miscidiazione dell'espressionismo, le parole del lessico comune prendono qui nuovi riflessi, proprio come i sassi opachi che brillano se bagnati dal
mare. Così la leggerezza del verso diventa profondità di parola interiore, affioramento di un senso ritrovato, sacralità di antico patto comunicativo con l'umanità rinnovato da valori ritrovati.
E infatti la poesia di Giacomo Garzya, in questa raccolta come già in Solaria, Passato e presente, Maree, ha come tratto proprio i valori della comunicatività, propri di una scrittura duttile e consapevole che ha recepito e rielaborato la lezione della lingua dei classici antichi e moderni ma anche di una attitudine al discorso sulle emozioni e i sentimenti che coinvolgono sempre l'interlocutore.
Lo stile di Garzya ha i caratteri di "stile semplice" declinato in poesia, cioè è l'esperto impiego di un linguaggio comune per esprimere verità remote dai luoghi comuni. Quanto più la complessità esprimibile del mondo poetico si accresce tanto più è raffinata la sapienza della ricerca linguistica del poeta. Così la parola- verso da leggera e semplice può divenire carica di una complessità inesauribile, sino al limite estremo della parola-rivelazione, della parola-oracolo, con un recupero della originaria potenza e ricchezza di significazione.
Garzya rende manifesta al lettore la sua riflessione sul Poetare:
Catturare il reale/ e trasfigurarlo con l'immaginazione/ questo è bello e rende felice il giorno.
/Rendere semplice ciò che è complesso / scoprire l'armonia delle linee/ nella luce che cambia/ nelle nuvole che corrono/ questo è bello e rende felice il giorno/ ...
Significativa, in questo senso, anche la dichiarazione di poetica dell'autore in Dall'ombra alla luce: A volte/ la creatività artistica/ e il ripensamento/ sulle cose della vita/ ingenerano foglie di
quercia ramate / in sarcofagi pieni di luce/ e speranza / in cui la morte si adagia serena / per vivere di nuovo.
Proprio in questa cifra di creatività e ripensamento anche i versi più lineari sono percorsi da inquietudini e vibrazioni che ridisegnano più nettamente paesaggi naturali e umani. Ogni incontro umano -
l'amico che viene da lontano e quello che è vicino da sempre - è la messa in luce di un colore dell'animo, di un tratto esistenziale, come in Per un'amica:
Sottovento/ il senso / della tua esistenza. / Sottovento/ scarrocci / frenando l'impulso/ di vivere tra i marosi/ ...
La scoperta del luogo, dell'uomo, della situazione procede in parallelo con la ricognizione degli spazi interiori; può accadere che questa dimensione della scoperta avvenga attraverso un amico, che in un primo tempo fa aprire lo sguardo del poeta sul paesaggio innevato e solitario di Cervicati, e lo induce poi alla riflessione sulle proprie radici e sui valori umani "co- · me l'amico / che calore / sparge / sulle mura / del cuore".
Continua è la riscoperta e la reinvenzione dei legami d'amore, "fuggito amore" o "nuovo amore" o sogno d'amore come in Selene, e il sogno è la condizione necessaria per percepire emozioni e sentimenti:
Mele d'oro / nel giardino blu del mare / di esperidi/ nella fantasia/ che vaga da un sogno all'altro, / senza riposo, / perché si sogna di notte/ ma si può sognare anche di giorno. / Vale la pena per dare vita al vento/ che tutto muove/ anche l'anima/ che dondola/ come turibolo/ nella notte stellata.
Se trasfigurati oltre l'orizzonte del reale proprio i legami d'amore diventano più intimi:
Come vorrei trovare un colorato paese di mare, / meglio se a picco, onde vivere ogni giorno l'onda/ E osservare la linea marcata/ oltre la quale l'occhio non vede / e immaginare lì il tuo cuore di donna aprirsi al mio/ in quel mare di nessuno / in cui vivere è respirare con te.
Pertiene ancora alla dimensione della scoperta ma con una duplice valenza cognitiva e emozionale la esperienza della riformulazione attraverso la traduzione, in cui le parole del poeta trasportate in altre lingue ricreano, a lui stesso e al lettore, nuovi sistemi di suoni e di significati, così come avviene in Clown triste, tradotta in tedesco da Antonio Garzya, e in Kheira, tradotta in arabo classico da Kheira Achit-Henni.
Poesia essenziale, dunque, quella di Giacomo Garzya, o meglio ricerca delle essenze prime dell'uomo attraverso l'ascolto del proprio io, e non a caso è ritornante il tema della poesia come ricerca attorno ai principi essenziali della vita stessa, cioè acqua, aria, terra, fuoco.
Ancora il mare si fa immagine con connotazione simbolica: pervaso di una mediterraneità intesa come dimensione culturale ma anche come dimensione naturale di luce e colore, il poeta vive in uno spazio - fisico e mentale - tra Grecia e Magna Grecia. Qui ogni volta che lo sguardo si fa attento al paesaggio, dalla costiera amalfitana a quella dalmata alle coste greche, solo in apparenza trasferisce attraverso la nitida parola la descrizione del dettaglio, dell'atmosfera del presente, perché il senso dei paesaggi mediterranei di Garzya trapassa il tempo con una rete sottile di richiami sino ad adombrare la visione del mito e dei suoi significati archetipici.
La profonda consonanza con il mondo naturale è tra l'altro vissuta nella ricerca di un equilibrio olistico dell'uomo: mare, luna, sole devono essere in una dinamica armonica con l'umanità.
Come il Garzya fotografo sa trarre immagini fatte di luminosità e linee pure dalla caoticità opaca dei paesaggi urbani, così le sue immagini di paesaggi marini rivelano in filigrana altre immagini, quelle della memoria e del sogno, del "limbo dell'anima", e dunque il "mare di dentro" è affidato all'intuizione del lettore come scenario privilegiato per tutti i paesaggi dell' anima.

 

PATRICIA BIANCHI

 

 

IL MARE DI DENTRO. RESOCONTO DI ANGELA MATASSA SULLA PRESENTAZIONE A PALAZZO SERRA DI CASSANO DEL MIO QUARTO LIBRO DI POESIE, GIACOMO GARZYA, "IL MARE DI DENTRO", Napoli 2005, M.D'Auria Editore.


Versi multilinguistici raccolti in "Il mare di dentro"
Tra l'arabo e il tedesco le parole innamorate di Garzya

 

"Come un innamorato dedico a te le nove rose che tu stesso descrivi", così Tommaso Bianco a Giacomo Garzya, autore del volume Il mare di dentro (edizioni D'Auria), durante la presentazione all'Istituto per gli Studi Filosofici di Napoli. L'attore napoletano, con una lettura accorata, ha contribuito alla comprensione e alla fruizione dei versi di Garzya, analizzati, indagati e spiegati da due autorevoli relatrici: la storica della lingua italiana Patricia Bianchi e la filologa Adriana Pignani. "Poeta di parola e di immagini" ha chiarito la Bianchi, ricordando che Garzya è anche fotografo attento e sensibile "mostra una chiara nota di equilibrio all'interno del componimento e del verso stesso". Risulta evidente, nelle centocinque liriche, una chiara voglia di aprirsi all'altro, attraverso le parole che comunicano e scambiano sensi profondi. "Garzya offre al lettore il suo kosmos" ha detto la Bianchi "parlando di amore, amicizia, armonia della natura e semplifica la parola, mostrandosi generoso verso il lettore. La linea della sua ricerca poetica va verso uno stato di leggerezza, che non è superficialità. Con lui si entra in un territorio magico, un mondo opaco e un po' inquietante, che è il limbo della sua anima". La docente ha sottolineato l'apertura dell'autore verso altre lingue (ci sono componimenti in tedesco, arabo e francese). "L'autore pratica la multietnicità" ha commentato "una prospettiva che pochi sanno applicare". Il mare, che ricorre anche nel titolo, "archetipo per eccellenza delle culture occidentali" ha concluso la Bianchi "è non solo simbolico, ma concreto, gioco tra luce e buio, tra inquietudine e leggerezza". Adriana Pignani ha analizzato l'amore profondo del poeta per la parola, "corposa nel dire, audace ed elegante, che descrive il diario dell'anima. Essa esprime un cammino in fieri". Tema ricorrente, anche qui come nelle tre precedenti raccolte, il presente che non disconosce il passato. "L'empito per la vita è forte" ha spiegato la filologa "ed è espresso ancora una volta attraverso i temi a lui cari: la Grecia, la Magna Grecia, i colori, i paesi arroccati. E il mare, che qui è codice interpretativo della verità"."Nella poesia" ha precisato a sua volta Garzya "riverso la mia esperienza di vita, la mia inquietudine, la profondità degli affetti. Come in un lirico diario dell'anima, intimo ma non intimista". Concludendo, Tommaso Bianco ha offerto al pubblico di amici e addetti ai lavori, una sua personale elaborazione delle poesie, creando una sorta di poema-copione che ha evidenziato i tratti significativi della poetica di Garzya.

ANGELA MATASSA

Articolo pubblicato ne "Il Mattino", 30 maggio 2005.

 

 

RECENSIONE DI ROSSELLA GALLETTI A "IL MARE DI DENTRO", LA MIA QUARTA RACCOLTA DI POESIE, Napoli 2005.

 

Libri/ Il mare di dentro. Viaggio nell'universo poetico di Giacomo Garzya

 

È un'esplosione di emozioni "Il mare di dentro" (M.D'Auria Editore 2005), l'ultima raccolta di liriche di Giacomo Garzya, poeta e fotografo napoletano. Emozioni colte nell'attimo fuggente del loro irrompere. Eppure non stregate dall'istintualità, ma coltivate nei meandri dell'anima, nell'attesa che la marea più propizia le porti a galla. Una poesia semplice nel verso e inafferrabile nelle sue significanze più profonde. Aperta alle interpretazioni dell'uomo-lettore. Le "Spine" sembrano essere il vero motore della vena artistica del Garzya : pronto a "stringere nelle mani le spine" di un rifiuto, di un ricordo, di un passato che non può recuperarsi, di un dolore, dunque, che lacera l'anima e il corpo. "Ma la spinta a ferirsi permane e permarrà sempre" : la Musa ispiratrice delle sue istantanee (le poesie) è la sofferenza, che nella sua funzione di catarsi, libera l'uomo e "cresce la poesia". È un'essenza vitale a scaturire dal dolore: Acqua, Terra, Fuoco e Aria sono gli elementi contemplati, che sorprendono l'esistenza in un limbo tra la vita e la morte. Tra il ricordo della "terra natia" e i luoghi inesplorati. Non è un monumento inerte al passare del tempo individuale, il diario scritto e fotografato dell'artista. È un fluire di immagini in continuo divenire, un maremoto dell'anima che apre nuovi orizzonti. "Il Mare di dentro" è la voce del sentire universale che non conosce limiti di razza, etnia o religione: è la passione di due "corpi stretti nell'amplesso" che "si contorcono nel sudore della notte"; o l'indissolubilità di un' "anima della mia anima nella mia anima la tua anima".
Dalle isole bagnate dal Mediterraneo alle aride regioni sahariane, la mano del poeta ferma frammenti, sensazioni, sentimenti, tradizioni e storia dei paesaggi vergini dal suo tocco.

 

ROSSELLA GALLETTI

Recensione pubblicata il 26 giugno 2008, in "Iuppiter News", anno III, numero 2.

 


 

PRESENTAZIONE DI ADRIANA PIGNANI DEL MIO TERZO LIBRO DI POESIE: GIACOMO GARZYA," PASSATO E PRESENTE", Napoli 2002, Arte Tipografica Editrice.


Passato e presente
di Giacomo Garzya

 

Chi si mette per il cammino della poesia, può percorrere vie ampie e piatte oppure impervi sentieri, segnando il passo su cadenze misurate o trascorrendo liberamente secondo la legge e la voglia che è sua propria. Ed è con quest'ultimo andamento che il cammino di Giacomo Garzya conduce del pari a luoghi e a tempi.
Il tempo sembra essere il tèma dominante, l'idea che maggiormente l'attrae sin dal titolo che impone a questa sua terza raccolta, al tempo proprio nella composizione d'inizio chiede di poter penetrare la sua natura, di liberamente guardare la vita. E il tempo si fa di volta in volta riconoscimento delle proprie radici, godimento dell'attimo presente, memoria dell'esperienza diretta, memoria della storia.
Vorrei súbito dire che la raccolta, fin dalla prima lettura, m'è apparsa come una voluta esplorazione di sé da parte dell'autore, costantemente accompagnata dalla coscienza che, mettendosi in viaggio, ciò che non si ritroverà giammai è proprio il tempo e l'essere dell'inizio. Persino il ricorso alla solitudine, ch'egli rivela spesso senza reticenze e che è sempre composta, senza laceranti esclusioni, mi appare piuttosto un momentaneo far tacere le voci altrui per ascoltare, in un pacato e lucido discorso, quella del proprio profondo, a scalzare la sua scorza, quella appunto che chiama 'mallo coriaceo' o 'tela grezza'.
Ma ai luoghi si giunge e si ritorna, e le tappe di questo itinerario sono tante e svariatissime e rappresentano sempre e contemporaneamente la visione del reale, il vissuto, e il richiamo d'una memoria lontana, d'una conoscenza acquisita. Il luogo evoca passate letture, suscita sentimenti, emozioni, impensate sensazioni. Sempre alla visione d'un luogo c'è come un fortissimo slancio e il lettore può come palpabilmente cogliere il nascere dell'idea che si fa poi poesia.
Appare qui quasi ovvio l'accostamento con la fotografia, che l'autore pratica con altrettanto successo. Certo egli ha l'occhio avvezzo a cogliere tratti e colori, dettagli e atmosfere, che ripropone poi in quell'unica, particolare ottica come significativo messaggio. Ebbene tutto questo riesce a riversarsi nella sua poesia, senza che gli faccia alcuna difficoltà il mutamento del mezzo espressivo, in luogo d'un obiettivo la piú mutevole, instabile parola che dopo l'empito del momento creativo costringe quasi sempre a ripensarla.
La geografia della sua raccolta è vasta e disegna un'ampia mappa del suo intimo, dei suoi ricordi, delle sue passioni. Percorre gli scenari piú vari, dalle caratteristiche piú contrastanti già a partire dalle terre delle sue radici, le nordiche 'brughiere' odorose 'd'erica', 'le fitte nebbie', 'la pianura deserta … dai venti battuta ' e d'incontro la 'terra rossa' con gli 'ulivi … da ventate marine torti come i rivoli scomposti dei monti'.
Due elementi costantemente presenti nella visitazione o rivisitazione dei luoghi, anch'essi sempre eguali e pur pronti ad assumere connotati diversi: il mare e il vento, a motivi conduttori, a chiavi ineludibili per la decifrazione del suo codice poetico. Il 'mare freddo … del Baltico … del magico Nord' ammirato attraverso il proprio sogno di bambino, la nostalgia dell'uomo, e poi il mare greco, e quello nostro, della nostra città, delle nostre isole che facilmente ravvisiamo, 'l'acqua verde e blu e limpida', 'il mare - che - s'accende nel solare brillio'.
Oltre al mare l'acqua comunque, quella dei laghi che ora si delineano placidi e liete visioni suggeriscono gli accenti della tenerezza negli affetti; ora fan da sfondo ed assieme al vento disegnano il profilo delle montagne altrettanto amate. Non è segno di contraddizione l'attrazione verso panorami fisicamente cosí diversi: l'ascesa lungo pendici difficoltose, la vetta, lo scintillio della luce, che l'altitudine rende esclusivo, rappresentano appieno quello slancio, che si diceva, la solitudine, il cammino di sé.
Oltre il mare l'acqua comunque, quella d'un fiume come la Senna, una sorta di ideale linea di confine, ma non come limite, al contrario soglia al mondo sconfinato delle aspirazioni piú alte, come le 'stelle … lontane dalla quotidiana violenza dei fatti, delle parole'.
La composizione dedicata al Lungo Senna apre una breve serie di poesie per la Francia - paese d'esperienza vissuta, e intensamente, per l'autore - serie in cui s'intensifica, e sempre piú s'estenderà nel prosieguo della raccolta, l'estrinsecazione del suo sentire. Se una differenza è forse possibile rilevare tra questa e le prove passate, che cedevano prevalentemente alla descrizione, alla rappresentazione, è proprio nel maggior gusto, la maggiore voglia di narrarsi, la quale produce anche una maggior saldezza nel linguaggio, come una sicurezza espressiva. Del linguaggio resta inalterata la scelta raffinata, colta, ma ispessisce quella 'spontanea levità' che gli ha riconosciuto Giuseppe Galasso, richiamato nell'Introduzione, a proposito della precedente raccolta - il cui titolo dà il nome anche alla prima composizione di questa, a segno, sí, di prosecuzione, ma pur di nuova partenza -; né piú si possono col Galasso continuare a negare alla poesia di Garzya 'insospettabili e improbabili profondità'.
Sarebbe dunque il momento di rivolgersi ai tanti temi, ai tanti significati, alle tante impressioni che trovan spazio in questa raccolta, col rischio grande di slargar troppo il discorso e poi anche annoiare. D'altro canto quando si analizza la poesia, quando la si sminuzza in piccoli tratti, è certo e inevitabile sia l'omettere sempre qualcosa, il trascurare alcunché che ad altri parrebbe essenziale, sia il non poter cogliere e rendere il senso e la suggestione che ha il suo insieme e che a sua volta si offre al lettore come esplicita significazione, ma anche come suggerimento nascosto. Mi viene quindi forte la tentazione di procedere ad un semplice, spoglio elenco, lasciando che ad emozionare siano le emozioni del poeta.
Dirò allora di due presenze forti, l'una estremamente recondita, come con pudore indicata, il senso del divino; l'altra possente nel suscitare passione, dolcezza d'amore, esaltazione, dolore. È l'idea della donna che con prepotenza conduce l'autore, di certo non all'orlo d'un baratro, ma alla vertigine della sua piú intima profondità.
Dirò della musica che, riposta nella sua conoscenza, anima poi di sé stessa un luogo, un personaggio, un mondo spesso finito - penso alla Juliette di Saint-Germain-des-Prés, alla Rodriguez di Coimbra (anche il poeta allora intona il suo fado), alla mascagnana Cavalleria che si chiude col sangue di Turiddu sulla distesa fiorita della Cunziria -.
Dirò della letizia di dolci affetti, che quasi sempre si esprime attraverso un enumerare in serie di colori. Ora Giacomo Garzya è scrittore autonomo da ogni corrente o moda letteraria e avulso da qualsiasi influenza o imitazione, ma questo suo modo si pone assai da presso all'esperienza scrittoria d'un rinomato poeta dei nostri tempi. Sto pensando a I. Ritsos, che fu anche pittore d'ugual livello. Ritsos è conosciuto in poesia quasi unicamente come il portavoce della resistenza contro ogni dittatura del suo paese, mentre nella fase piú avanzata della sua maturità - quando la situazione politica greca, e la sua vicenda personale, era ormai pacificata - sperimentò una ricerca di liguaggio che travalicasse i limiti tra poesia e pittura, tra parola e raffigurazione d'immagine, e in questo suo, davvero rivoluzionario, tentativo l'evocazione dei colori appare l'unico codice espressivo, la cui convenzione possa essere comunemente accettata.
Dirò infine degli spunti che l'autore trae dalla storia. Sono le ultime composizioni, che rappresentano il segno piú evidente del come Garzya viva con profonda partecipazione il mondo delle sue conoscenze. Sono cinque, significativi eventi, in cui la vicenda del nostro mondo si è trovata a un crocicchio, a imboccare una strada di non ritorno, al cui approccio l'autore muove con una concezione poetica e una tecnica di volta in volta diverse.
In Bouillon sullo sfondo di paesaggi contrastanti, ove l'opposizione è quella dell'Occidente con l'Oriente, l'uomo, quel Goffredo conte e mai re, è protagonista d'una scelta fatale. In Otrànto l'orda musulmana che, imprimendo sui mirabili marmi musivi l'onta dello zoccolo dei cavalli, invase la splendida basilica sovrastante la cittadina pugliese e ne sterminò in incredibile numero la popolazione, conduce il pensiero ad antiche ragioni dei fatti dell'oggi, ma vince il senso della grande commozione. Chiunque abbia visitato il luogo, ritrova in quell'accento, Otrànto, che è dell'uso locale, la vitalità della memoria degli abitanti, del loro sentire sempre come attuale il lontano evento. Evocazione d'atmosfera, pura descrizione di tratti per Napoli 1822 tra l'esplosione del nostro vulcano e visioni placide e consuete d'un molo marino.
Una particolare sapienza compositiva unisce 15-18 giugno 1815 e Praga 1968: Waterloo ricostruita attraverso precisi flashback, i punti salienti della battaglia scelti con competenza, rivela il pieno possesso della materia e la capacità di visualizzare la storia, di darle vita entro il suo stesso scenario; eguale impianto, eguale tecnica espositiva per le vie e piazze prima festanti della loro primavera, poi invase dai carri: vita vissuta, storia e cronaca insieme, prosecuzione d'un viaggio, del viaggio verso il piú umano degli esiti, il pianto sulla libertà persa, sulla stagione conclusa.
Le cinque composizioni storiche - ma la storia non manca certo di apparire anche prima -, in rigoroso ordine cronologico (ch'io ho un po' alterato per ragioni di critica estetica) chiudono la raccolta slargando, dall'esperienza individuale all'esperienza comune, la contrapposizione, ma pur la continuazione di Passato e presente.
Manca del tempo la terza categoria ed è quell'avvenire, che, ricco di produttività, auguriamo all'autore e da lui attendiamo.

 

ADRIANA PIGNANI

 

(Presentazione di "Passato e Presente" di Giacomo Garzya, all'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli, 30 gennaio 2003).

 

 

PRESENTAZIONE IN INGLESE DI ADRIANA PIGNANI DEL MIO TERZO LIBRO DI POESIE: GIACOMO GARZYA, "PASSATO E PRESENTE", Napoli 2002, Arte Tipografica Editrice.


Passato e presente
by Giacomo Garzya

 

Whoever sets out on the long initiation of poetry may keep to broad, flat highways or choose the rough, inaccessible byways, and advance with measured strides or amble along just as his own discipline or whim dictates. Giacomo Garzya favours the latter gait, and it leads him and us to certain places and certain times.
Right from its title, time appears to be the predominant theme of this third collection of poems, the single idea exercising overwhelming fascination. In the very first poem the poet wishes to be able to penetrate the nature of time, to freely contemplate life itself, while subsequently time becomes the recognition of his roots, enjoyment of the present moment, memory of direct experience and indeed of history.
On the very first reading I felt that in this volume we see the poet exploring himself and his own nature. He does so in full awareness that on this journey he is destined never to encounter again the same time or person as at the beginning. He frequently alludes pacifically and without reticence to the state of solitude. Far from involving laceration and exclusion, this seems to me to be merely a momentary silencing of other voices. It enables him to heed the voice of his own inner being which comes across in a measured and lucid discourse, breaking through his 'hard shell' or 'rough cloth'.
Places which we reach and return from them: this itinerary involves many very different ports of call, both a record of reality and personal experience and an evocation of distant memories, knowledge he had gained. A place recalls past readings, sentiments and unlooked-for sensations. Each vision of a place provokes a sudden surge of emotion: it is as if the reader can sense at first hand the genesis of an idea that turns into a poem.
It comes quite naturally to use photography as a paradigm, for the author is also an accomplished photographer. He has a practised eye for seizing features and colours, details and atmospheres, which are then given distinctive form to communicate a message, and all this is brought into his poetry. Apparently the change of medium does not cause him any difficulty, even though the objective lens is replaced by the more evasive word, and as we know, once the inspiration of the creative moment is past, one almost always has to go back over what has been written.
The geography of this volume is far-flung and traces a comprehensive map of his inner world, memories and passions. It visits varied, contrasting landscape: at first the places of his roots, northern 'moors' with the scent 'of heather', 'thick fogs', 'the deserted plain … scoured by winds'; and then the 'red earth' with 'olives … bent and twisted by the winds off the sea like the gnarled runnels on the hillsides '.
Two natural elements always feature whenever he visits or revisits places, always the same and yet ready to take on different connotations. I am speaking of the sea and wind, surely two Leitmotifs in his poetry, indispensable keys to his poetic code. The 'cold sea … of the Baltic … the magic North', admired in a dream when he was a child and object of nostalgia for the grown man, and then the sea of Greece and our own sea, spread out in front of the city, with our islands lying out there to be admired, 'the water green and blue and limpid', 'the sea - which - comes alight in the sun's full splendour'.
Of course the sea implies water in general, as in lakes that may lie placid, pleasant visions conjuring up the tenderness of loving relationships, or serve as a backdrop, setting the scene in conjunction with the wind for the poet's beloved mountains. There is no contradiction in this dual attraction to such widely differing landscapes: the laboured ascent, the summit, the shafts of light found only at certain altitudes, are perfectly apt to represent the surge of emotion we talked about, the solitude and the journeying.
Water in general also includes a river like the Seine, a sort of ideal boundary line which marks not a limit but, on the contrary, the threshold of a limitless realm of lofty aspirations, like the 'stars … far from the daily violence of events and words '. The poem describing the Banks of the Seine initiates a brief sequence celebrating France - a country imbued with intense personal experiences for the author. Here we find an intensification of his tendency to explore his own feelings, and this proceeds through the rest of the collection. In the preceding collections the emphasis was chiefly on description and representation. Here, and this is perhaps the innovation of this volume, the author is keener to recount himself, and indeed seems to take pleasure in doing so. This produces a greater security in the language, a sounder expressive touch. Here as before we find the same sophisticated approach to word choice, but there is a new depth to the 'spontaneous levity' identified by Giuseppe Galasso (see Introduction) with respect to the previous collection. In fact the latter's title is also the title of the first poem here, indicating continuity but also a new point of departure. Galasso is surely right to recognise in Garzya's output 'unlooked-for and improbable depths '.
Now strictly the time has come to turn to the many topics, meanings and impressions contained in this volume, but this would risk becoming excessively generic and indeed boring. Besides, whenever one analyses poetry, chopping it up into little sections, something is bound to be left out, ignoring some feature that others regard as essential. Or else one fails to identify and render the sense of the whole, which at times is available to the reader not just as explicit significance but as implicit suggestion. Thus I am strongly inclined to proceed with a mere list, leaving the poet's emotions to do their work.
Let me identify two presences, both of them forceful, although the first is extremely recondite, hinted at with timidity: the sense of the divine; while the other arouses passions, being the tenderness of love, exaltation, sadness. We find the idea of the woman forcefully leading the author, not of course to the edge of the abyss but to the swooning consciousness of his most intimate inner self.
Then I can identify music which, part of his fund of knowledge, itself animates a place and a character, or a world which often is no more - I am thinking of Juliette and Saint-Germain-des-Près, Rodriguez and Coimbra (where the poet composes his own fado), and Mascagni's Cavalleria which ends with Turiddu's blood on the flowery parterre of the Cunziria.
I can refer to the delight in loving relationships, which is almost always expressed in a series of colours. There is no doubt that Giacomo Garzya stands outside any literary current or trend, and is free of any influence or inclination to imitate, but this particular aspect sets him close to the work of a well-known poet of our times, namely I. Ritsos, who was also a no less distinguished painter. His reputation as a poet derives almost exclusively from his role as spokesman against all forms of dictatorship in his country. Nonetheless, at the height of his maturity - when the political situation in Greece, and also his personal life, had achieved a certain tranquillity - he experimented with linguistic forms which transcended the confines between poetry and painting, word and image. In this truly revolutionary approach the evocation of colours emerged as the only expressive code which could stand as a commonly recognisable convention.
And finally I can point to the insights the poet derives from history. It is in the last poems of the collection that we see most clearly how Garzya identifies quite profoundly with his personal fund of knowledge. He singles out five significant events during which the modern world found itself at a crossroads, about to take a decisive step in which there would be no going back, and he adopted a specific poetical approach and technique for each one.
In Bouillon, against a backdrop of contrasting landscapes where the West stands in opposition to the East, it is an individual, Goffredo "count and never king", who is the protagonist of a fatal choice. In Otrànto the Moslem horde which invaded the splendid basilica overlooking this town on the coast of Puglia, marring the wonderful marble floor mosaics with their hoofprints and exterminating an incredible number of the inhabitants, evokes age-old reasons for current troubles, although it is the sense of profound emotion which prevails. Whoever has been to Otranto will immediately sense, in the accentuation of the second syllable, a local peculiarity, transmitting all the vitality of the collective memory, for the inhabitants continue to relate to that remote event as if it had just happened. In Napoli 1822 we find atmosphere and a pure description of effects, amidst the explosion of our own volcano and peaceful, familiar images of a seaside jetty.
The two poems 15-18 June 1815 and Praga 1968 share a particularly accomplished compositional device. The battle of Waterloo is reconstructed by means of precise flashbacks, the key moments masterfully singled out, showing a comprehensive grasp of the subject and the ability to visualise history and bring it to life. The same approach and narrative technique is adopted for the streets and squares celebrating the Prague Spring, only to invaded by tanks: personal experience, as we have said, history and narrative combined, the pursuit of a journey towards the most human of outcomes, the mourning of lost liberty, a chapter ended.
These five historical compositions - although of course history was clearly present also before this point - are given in rigorous chronological order (which I have altered for my own aesthetic ends). They bring the volume to a close, opening out from individual experience to the experience of one and all, representing the essential juxtaposition, but also continuity, of Past and present.
Where, we might ask, is the third and final category of time, the future? Of course this, with the abundant productivity it presupposes, is our wish for the author, and our confident expectation from him.

 

ADRIANA PIGNANI

(Presentation of "Passato e Presente" by Giacomo Garzya, at the Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Naples, 30 January 2003)
(traduzione in inglese del compianto amico Mark Weir).

 

 

 

ARTICOLO SULLA PRESENTAZIONE DELLA MIA TERZA RACCOLTA DI POESIE "PASSATO E PRESENTE" ALL'ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI


PASSATO E PRESENTE
Poesia con foto, viaggio in versi
tra luoghi onirici eppure reali

 

Luoghi onirici, che riflettono la propria bellezza attraverso le immagini e le sensazioni che suscitano nella poesia. Ai luoghi vissuti, attraversati, o anche solo ammirati, Giacomo Garzya dedica Passato e presente, la raccolta di 54 liriche, edita da Arte Tipografica, che segue Solaria e Maree, le antologie poetiche con sui Garzya si è affacciato per la prima volta al complesso mondo della scrittura, dopo anni di studi storici. Non è un caso che sia uno storico, del calibro di Giuseppe Galasso, a presentare la raccolta Maree. L'ultima è stata ufficialmente presentata all'Istituto italiano degli Studi filosofici, alla quale hanno partecipato, insieme con l'autore, la giornalista e scrittrice Angela Matassa, il critico Adriana Pignani e il giornalista Enzo Pagliaro. Studi vichiani e crociani, e una professionalità indiscussa in campo storico - con numerose pubblicazioni sulla storia sociale e religiosa del Mezzogiorno - non hanno impedito all'autore di esprimere il suo estro poetico. Non solo attraverso i versi, ma anche con la fotografia, l'altra arte che gli è congeniale, che lo vede autore di belle pubblicazioni su Napoli e su Procida. Prendendo a modello un autore universale, come Antoine de Saint-Exupery, Garzya "guarda ciò che lo circonda come se si trovasse sulla luna o su un astro immaginario", così che tutto si confonde e la realtà varca i confini della fantasia. Nasce così Passato e presente in cui, chiariscono le relatrici, il poeta esprime, approfondite ed arricchite, le forti sensazioni, le emozioni, le visioni espresse nei due precedenti volumi. Celebrando la natura, la passione, la solitudine contemplativa. Versi nei quali, come scrive Giuseppe Galasso nella prefazione di Maree, "è rivelato un mondo semplice ancorché pensoso, composto ancorché vivace... naturale e credibile nella sua radice umana".

 

COSTANZA FALANGA

Articolo pubblicato ne "Il Mattino", 4 febbraio 2003.

 

 

RECENSIONE DI ANGELA MATASSA ALLA MIA TERZA RACCOLTA DI POESIE "PASSATO E PRESENTE", Napoli 2002.

 

Giacomo Garzya, versi sospesi
sull'altalena di passato e presente

 

È dedicato a Passato e presente l'ultimo libro di poesie di Giacomo Garzya, pubblicato da Arte Tipografica. Il poeta-fotografo, salentino di origine, ma napoletano d'amore, già nei precedenti Solaria e Maree esprimeva emozioni e visioni che tornano in quest'ultima raccolta approfondite ed arricchite. Prodotte, sia dalla passione per la Grecia, di cui è studioso appassionato, sia da ricordi di antiche amicizie e variegati viaggi. In quest'ultimo volume, Giacomo Garzya racconta il suo passato legandolo al presente con un sottile filo, che si snoda attraverso i temi a lui più cari: la storia, l'amore, la passione, la solitudine contemplativa e creativa, l'amicizia, i colori. E la fotografia, l'altra arte che gli è congeniale, lo aiuta a fissarli nei mille fotogrammi che lo ispirano nell'attimo fuggente in cui li vive e che diventano versi o immagini. Strumenti che gli permettono di penetrare nel "mallo coriaceo" che è in lui, liberandone l'anima. Quindi, "liberi gli occhi dalle bende", come scrive lui stesso, l'autore esprime a piene mani il tumulto che lo attraversa, le contraddizioni che caratterizzano l'uomo. Esprime la dicotomia propria dell'uomo. Da una parte la voglia di osare, di andare oltre, dall'altro il freno, la corazza. E una volta domina l'una, una volta l'altro, nel tentativo di trovare un equilibrio che, a volte, sente stretto. Ad ispirarlo sono il giorno e la notte, il buio e la luce, il colore, il rumore e il silenzio, in un'altalena tipica della sua personalità. Va alla ricerca di un rifugio sicuro che lo consoli e lo sproni rendendolo certo, ma solo per un attimo. L'attimo del verso, per fissare, nero su bianco, su carta o su pellicola, il fotogramma che lo ha ispirato. Le sue poesie sono attimi di vita colti in ogni momento del quotidiano. La grecità è sempre presente nell'ispirazione, nel ricordo, nei versi. Ma ci si imbatte anche nella disperazione e nel dolore del vivere, che, di tanto in tanto, gettano un'ombra scura sulla voglia di vivere: e spesso lo attanaglia una solitudine interiore che non è isolamento ma dimensione da vivere e di cui godere. A volte, perfino ricercata.

 

ANGELA MATASSA

Articolo pubblicato ne "Il Mattino", 3 settembre 2003.

 



 NEL RICORDO DI MIO PADRE E DEI SUOI INSEGNAMENTI. COMMEMORAZIONE ALL'ACCADEMIA PONTANIANA

(Articolo pubblicato in "Controcampus.it", 24 Novembre 2012).

 

Giovedì 29 novembre, presso la sede dell'Accademia Pontaniana in via Mezzocannone 8, il professore Ugo Criscuolo, attualmente docente di letteratura greca, nonché decano, presso l'Università degli studi di Napoli Federico II, terrà una commemorazione in onore dell'illustrissimo professor Antonio Garzya, scomparso lo scorso 6 marzo a Telese Terme, all'età di 85 anni.
Antonio Garzya è nato a Brindisi il 22 gennaio 1927, ha conseguito il titolo di laurea presso la Federico II in letteratura greca, con una ricerca sull'Andromaca di Euripide. La sua carriera accademica ha avuto inizio nella medesima Università in cui è stato prima docente di letteratura greca e latina, poi, dopo aver insegnato anche nei licei, di filologia bizantina, materia che gli deve molto, e papirologia. Ha insegnato anche presso l'Università di Macerata, di Vienna e alla Sorbonne di Parigi.Chi è Antonio Garzya: breve biografia, e pubblicazioni più importanti dell'autore.Autore di un migliaio di pubblicazioni: articoli, saggi, manuali, tra cui l'edizione critica per l'Accademia dei Lincei dell'epistolario di Sinesio di Cirene, di cui il professor Garzya ha curato tutte le opere per la collana dei Classici greci Utet che ha affidato a lui la cura della sezione dei testi tardo antichi e bizantini.
Dottore honoris causa dell'Università di Tolosa e membro onorario di numerosissime associazioni ed enti universitari e culturali europei, nonché vicepresidente della Association Internationale des Etudes Byzantines, situata a Parigi, il professor Garzya è stato anche presidente dell'Associazione italiana di Studi Bizantini, fondata a Napoli nel 1990 per iniziativa dei più eminenti studiosi di civiltà bizantina.
La notizia della sua morte ha lasciato un vuoto in tutti coloro che lo avevano conosciuto personalmente o anche solo semplicemente per fama. In occasione della sua scomparsa, anche l'ex sindaco di Napoli, Antonio Bassolino, suo allievo presso il liceo classico di Napoli Garibaldi, ha espresso il suo cordoglio con poche ma profonde righe pubblicate sul quotidiano "La Repubblica".Ma oggi, a parlarci, è qualcuno che gli è stato molto vicino, Giacomo Garzya, suo figlio. Egli, laureatosi in Lettere moderne, è stato borsista dell'Istituto Italiano per gli Stud storici ed ha arricchito il suo curriculum di tantissime pubblicazioni. Insegnante di ruolo di materie letterarie nelle Scuole medie statali dal 1984, attualmente insengante presso la Scuola Media St. Tito Livio di Napoli, a partire dal 1998 ha pubblicato otto libri di poesie, coltivando ed approfondendo, già dal 1981, la passione per la fotografia.
Abbiamo scelto di intervistare Giacomo Garzya per conoscere meglio suo padre e diffondere un'immagine del famoso professore diversa dal consueto.
Suo padre, il professor Antonio Garzya, si può definire uno dei più grandi studiosi e cultori delle discipline antiche degli ultimi tempi. Cosa significa essere figlio di un personaggio tanto illustre ?
"Certamente è stato un grande filologo (parlano i suoi scritti e la sua biografia) ed era anche, per passione giovanile, poliglotta (parlava correntemente otto lingue). Essere suo figlio è stata una fortuna e un privilegio, per tutto ciò che ha saputo trasmettermi, ma il suo ruolo anche un grosso peso, come avviene sovente in questi casi."
Lei, come anche sua sorella Chiara, attualmente docente di storia dell'arte nei licei, ha intrapreso studi per un certo verso affini ma, allo stesso tempo, diversi. Quanto la figura di suo padre ha contribuito alla sua scelta?
"In famiglia l'aria che si respirava, sin da piccoli, era quella della cultura. Certamente c'è stata una influenza nel perseguire, nel mio caso, studi storici e poi letterari (anche se il mio primo anno universitario frequentai il corso di laurea in Scienze politiche), tuttavia ciò che da mio padre ho direttamente ereditato è stato il metodo della ricerca, la stessa cosa vale per mia sorella Chiara. "
Personalmente io, come tantissimi miei coetanei, non ho avuto l'onore di poter incontrare suo padre ed assistere ad una sua lezione. Tuttavia la sua presenza aleggia costantemente in dipartimento ed è frequentemente ricordato da tutti i docenti. Ci chiediamo, dunque, come il professor Garzya si rapportava con i sui studenti? E, eventualmente, quanto lei ha "ereditato" di questo ultimo aspetto?
"Il rapporto con i suoi discepoli è stato sempre eccellente, mio padre era un altruista per natura e credeva fermamente nella sua Scuola. Non ho avuto il privilegio di approdare a una carriera universitaria, nonostante abbia frequentato gli studi storici per un decennio e sia stato borsista dell'Istituto italiano per gli Studi storici. Con i miei alunni sono disponibile e cerco di insegnare loro l'amore per la lettura, ma non potrò mai creare direttamente dei ricercatori o dei cattedratici, insegnando io nella scuola secondaria inferiore. "
Un grande filologo e studioso ma soprattutto un grande uomo, un padre che ha saputo trasmettere ai suoi figli ed ai suoi "discepoli", quasi fossero suoi figli "adottivi", l'amore, la passione per la cultura, classica e non. Un professionista ed un uomo di altri tempi quello che salutiamo, che ha lasciato dietro di sé una scia di scienza e di umanità che noi, nuove generazioni, anche se non l'abbiamo conosciuto, non possiamo far altro che onorare e cercare di seguire.

          GIUSEPPINA IERVOLINO

 

 

 

POESIA DI GIACOMO GARZYA SCRITTA DIECI ANNI PRIMA DELLA SCOMPARSA PREMATURA DI SUA SORELLA CHIARA (8 APRILE 2019)

 

IL VIAGGIO DELLA VITA

A Chiara sorella


Tante sequenze i miei viaggi,
come foto su celluloide fissate dagli occhi
attraverso finestrini in corsa col vento.

Pianure, monti, pascoli, fiumi da ponti di ferro,
alberi quanti alberi, casolari, case su case,
porti, confini di stato, pullulare di volti,
attraverso finestrini di auto e di treni in corsa.

Tante sequenze, quanti ricordi,
questi i viaggi con Chiara sorella, fino ai vent'anni.

In lotta col tempo che passa,
senza tornare indietro,
il viaggio della vita continua, e quell'anfora,
che viene dal mare, lì al centro del quadro,
tutti li contiene i ricordi, proprio tutti,
recenti e remoti.

Né togliendone il tappo, i mali del mondo e la morte
agli uomini darebbe Pandora,
bensì la vita, la gioia di vivere e ancora vivere,
che solo il viaggio e gli affetti possono dare,
anche quelli per sempre perduti


Napoli, 8 luglio 2009.

 

in GIACOMO GARZYA, "IL VIAGGIO DELLA VITA", Napoli 2010, M.D'Auria Editore, p. 74.

 


 


 

Trieste, Piazza dell'Unità d'Italia, 11 dicembre 2022 (foto di Giacomo Garzya)




Con i miei due nuovi libri (Trieste, 18 marzo 2023, foto di Paola Celentano)








El Giza, 2 agosto 2009


Petra, 21 agosto 2009 ( foto di Paola Celentano )

New York, 8 luglio 2015 (foto di Paola Celentano)



Niagara Falls, dagli Stati Uniti , 11 luglio 2015  ( foto di Paola Celentano )


Dal 19 luglio 2023, è stato messo in rete a cura della Redazione di "Poeti e Poesia" della Casa Editrice Pagine, Roma, un minisito di Giacomo Garzya al seguente link: http://autori.poetipoesia.com/minisiti-giacomo-garzya

 

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