Giacomo Garzya a 19 anni, Parigi, Tour Eiffel (foto di sua sorella Chiara, 22 agosto 1972)
La poetica di Giacomo Garzya, tra poesia e fotografia
UNA RIFLESSIONE SULLA MIA ATTIVITÀ DI POETA E FOTOGRAFO
La poesia è stata sempre parte importante della mia vita, rappresentando una continua ricerca esistenziale: la mia inquietudine, la storia come memoria, gli amori, i luoghi, la natura, il vento e il mare motore di tutte le cose, le mie radici mediterranee e nordiche, fino al lutto per la scomparsa tragica di mia figlia Fanny. Sulla mia prima formazione giovanile, molta importanza hanno avuto le letture intensive dei classici, in particolare i Poemi omerici, Saffo e gli altri Lirici (nella traduzione di Salvatore Quasimodo), Catullo, Orazio, Foscolo, Kavàfis, Garcìa Lorca, Ungaretti, Dostoevskij, Hemingway, de Saint-Exupéry, Malaparte e la Fallaci. Quanto allo stile, come è stato già notato nel 2001 da Giuseppe Galasso nella prefazione al mio secondo libro di poesie “Maree”, “i versi di Garzya sono…lievi, scorrono con la naturalezza della spontaneità che li ha dettati anche quando sono densi…di nomi famosi, di tòpoi storici e letterari”. Lo stile, infatti, nella scrittura ha un peso specifico: Francesco De Sanctis diceva che “la forma è la cosa”, ma l’uso indispensabile delle principali regole della retorica – la poesia non è la prosa – e la forza evocativa delle parole, legate al personale bagaglio lessicale (la parola greca “Logos”, quindi, nei suoi due significati di parola e pensiero, tante parole tanti pensieri), non bastano da sole, senza un’ispirazione creativa fatta di emozioni, l’ “Io lirico”, la storia anche personale di ieri e di oggi, purché si renda universale. Quindi forma e contenuti, secondo la lezione leopardiana che definiva Vincenzo Monti “poeta dell’orecchio e della immaginazione, ma non del cuore”. L’immediatezza, poi, con cui ho scritto molte poesie non vuol dire scrittura spontanea, ma pensieri sedimentati, che fuoriescono quando devono, quando sono maturi. Il mio percorso poetico trentennale, se non si considerano gli anni giovanili, vuole coltivare innanzitutto l’ “Io lirico”, essere un’introspezione non intimista, bensì universale, vuole essere autobiografico, un “romanzo della vita”, alla Umberto Saba, un diario dell’anima, non della mia soltanto, ma di tutte le anime portate a pensare, a riflettere sul significato della propria esistenza, nel suo scorrere tra esperienze trascorse e nuove emozioni; la mia poesia, infine, fin dall’inizio, ha voluto essere anche un antidoto contro l’oblio del tempo, preservando i valori della nostra civiltà, tenendo sempre vivi gli affetti, che ci consentono di sopravvivere in un mondo spesso ostile, non sempre o non proprio amico. Sin da piccolo mio padre Antonio – poliglotta (parlava correntemente otto lingue), insigne Filologo classico e bizantinista, professore di Letteratura greca all’Università Federico II di Napoli, nonché di greco medioevale alla Sorbona e “associé étranger de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres” – il mio primo Maestro, mi inculcò il valore dell’universalità e quando scrivo interrogo me, pensando agli altri. Sicuramente nelle mie poesie, col passare degli anni, vi si legge anche un iter di maturazione verso tematiche storiche, sociali, religiose, ambientali, non solo, quindi, legato a ispirazioni introspettive e intimistiche, che pure sono parte consistente della mia produzione. Il mio poetare, infine, definito da qualche critico, “neoumanistico”, spesso vissuto in prima istanza con le persone care, è un invito a vivere con gioia le cose belle, ribadendo con forza la mia citazione di Oscar Wilde, nella mia prima silloge poetica del 1998, “Solaria”: “coloro i quali trovano nelle cose belle significati belli, sono persone colte. Per questi c’è speranza”. La bellezza, quindi, non fine a se stessa ma storicizzata, che fa stare in pace sé e gli altri, in contrapposizione dialettica al dolore, al dramma della morte. Il dolore, il dubbio, l’oppressione rimanendo comunque i veri motori dell’esistenza, forieri di creatività, di libertà, di fede, anche quella del “Deus sive Natura” di Spinoza, che aveva divinizzato l’intero Cosmo, stando all’interpretazione di Hegel.
Quanto alla mia fotografia, essa nasce fin dall’infanzia come fotografo di famiglia nei viaggi estivi, quando con un apparecchio a fuoco fisso, senza nessuna pretesa, fotografavo viaggiando con la mia famiglia; fu in quegli anni che visitando musei d’arte nelle varie capitali europee, acquisii un gusto personale, utile per inquadrare le foto, di lì anche la capacità di saper osservare i paesaggi, urbani e non, nonché le varie tipologie di persone incontrate. La mia fotografia divenne professionale in pochi anni, dopo il passaggio nel 1981 alla reflex e alle diapositive, con risultati più che soddisfacenti, soprattutto quando iniziai a fotografare con l’ottica Zeiss. Questo percorso analogico si concluse nel 2009, l’anno in cui fui costretto al digitale, in primo luogo, perché i laboratori fotografici, per il crollo della domanda, non rinnovavano più con frequenza gli acidi per lo sviluppo delle diapositive, con risultati a dir poco disastrosi, in secondo luogo perché diventava sempre più difficile reperire le pellicole, essendosi ridotta la loro produzione a livello mondiale. La mia fotografia, poi, è stata innanzitutto basata sullo studio impressionistico della luce: per qualche critico, una metafisica della luce finalizzata alla ricerca di una natura primordiale nei suoi elementi fluttuanti, in un incessante pànta rheî, quindi uno studio sui quattro elementi, basata sulla lettura dei Greci, in particolare i frammenti di Empedocle, che mi portava a fotografare nuvole, tramonti rossi, onde marine, rocce, albe sul Vesuvio, secondo un criterio che avrebbe portato al superamento del momento prettamente emotivo che le aveva volute. L’acqua, elemento primigenio, la terra in continua trasformazione, il fuoco indomito che stordisce, abbaglia, che dà luce alla scena e calore alla nostra esistenza, alla nostra fantasia, quindi anche un rapporto cromatico-emozionale tra elementi che interagiscono tra loro: Fuoco-Sole-Luce-Energia-Calore-Colore-Nuvole-Acqua- Vento-Roccia. Tale ricerca, durata molti anni, confluì in parte, per quanto concerne l’elemento Acqua, in una mia mostra personale nel 2006 all’Istituto italiano per gli Studi filosofici “Il mare che non si vede”. Lo studio monografico sui quattro elementi, solo per la mia incapacità di trovare degli sponsors, non si concretizzò, una ventina d’anni fa, in una mostra personale a Milano e in un volume edito sempre a Milano, la capitale italiana della fotografia. Ebbene questi, oltre ai reportages fotografici dei miei viaggi, sono i temi ricorrenti nella mia fotografia. Quanto alla mia fotografia analogica, la diapositiva per me aveva rappresentato un prodotto finito già allo scatto, non si poteva sbagliare, e già ne conoscevo il risultato, buono non solo per il reportage, ma soprattutto per la fotografia creativa. Anche con l’apparecchio digitale, in realtà, con opportuni accorgimenti e tarature a priori, fotografando per lo più con priorità dei diaframmi, ho ottenuto ottimi risultati, senza mai arrivare al “photoshop”, se non per regolare, quando necessario, la luminosità. Pur rimpiangendo la fotografia analogica, per una mia personale modalità di intendere la resa fotografica, la fotografia digitale, specie nel reportage e nelle precarie condizioni di luce, presenta innumerevoli vantaggi, che non sto qui a dire tanto sono noti, su tutti quello di avere a disposizione un numero quasi illimitato di scatti e, nella stessa macchina, molteplici pellicole, nonché quello di non dipendere dalla temperatura dell’ambiente circostante, nemico giurato delle diapositive. Infine la fotografia digitale ha aperto a un tipo di arte più concettuale, surreale, rielaborata a tavolino, ma che non ha più niente a che fare col mio modo di intendere la fotografia, sempre soggettiva, ma al confronto, senz’altro più realistica.
Oggi non sono ancora, a 72 anni appena compiuti, come disse Cesare Pavese a quarant’anni, “alla fine della candela”, ma vivo con molto piacere questa fase della mia esistenza, e, dopo aver superato momenti piuttosto difficili quanto alla salute, le mie giornate sono state sempre piene, anzi devo dire che non ho mai lavorato tanto in vita mia, nel senso che ho letto molto, ho fotografato molto e le mie poesie, scritte dal periodo della pandemia ad oggi, sono state permeate non di rado, da una visione più storicista e da un “pensiero forte”, da far prevalere sul cosiddetto “pensiero debole”. Questo lascito idealista l’ho avuto dai miei studi storici, dai miei Maestri Giuseppe Galasso e Mario del Treppo e in prima istanza da mio padre, pure lui crociano. Credo di averne colto la filosofia, cioè che è fondamentale dare un indirizzo preciso al proprio lavoro, eliminando, a costo di rimetterci, ogni compromesso, ogni imposizione da qualcuno sopra di noi o peggio da noi stessi, quando ci si sente costretti a fare qualcosa che non ci piace. La mia vita è andata così: ho sempre, o quasi sempre, fatto, a scapito della mia carriera lavorativa, ciò che più desideravo, in primis viaggiare – non è un fatto negativo come sosteneva Pavese quando diceva che “viaggiare è una brutalità”, ma al contrario ti permette di vivere più volte – in secondo luogo poter fissare le mie emozioni fotografando e scrivendo, onde poter rivivere al meglio, pienamente, i lati belli della vita.
Trieste, 28 novembre 2024
Giacomo Garzya
BLOG.DANTEBUS.COM: INTERVISTE D’AUTORE – GIACOMO GARZYA
“Il riverbero delle parole” e “Le vie dell’immagine” sono le sue ultime fatiche artistiche. La prima è una silloge poetica mentre il secondo è un libro fotografico, lei stesso infatti si definisce “poeta e fotografo”. Quando è avvenuto il primo incontro con queste due arti? C’è una tra le due che considera più indispensabile nella sua vita? Se sì, quale?
Il primo approccio alla fotografia risale alla mia infanzia, quando con un apparecchio a fuoco fisso, senza nessuna pretesa, fotografavo viaggiando con la mia famiglia; fu in quegli anni che visitando musei d’arte nelle varie capitali europee, acquisii un gusto personale, utile per inquadrare le foto. Nel 1981 avvenne il mio passaggio alla reflex e alle diapositive, con risultati più che soddisfacenti, anche per la qualità della mia macchina professionale CONTAX e per gli obiettivi ZEISS. Questo percorso analogico si conclude nel 2009, l’anno in cui fui costretto al digitale. La poesia pure nasce presto, in parallelo alla lettura intensiva dei classici, ma si interrompe intorno ai vent’anni, prevalendo l’interesse verso i miei studi storici, per riprendere dal 1993 fino a oggi. La capacità di osservazione come fotografo dei paesaggi, urbani e non, nonché delle persone incontrate, ha avuto molta influenza nell’elaborazione della mia poesia, al di là dei già importanti e imprescindibili elementi culturali e interiori e, a detta della critica, sia fotografia che poesia sono sempre andate avanti di pari passo, interconnettendosi, fino all’ultimo quinquennio quando ha prevalso nettamente la poesia. La mia fotografia, è quindi complementare alla mia poesia, in cui si riversano la mia esperienza di vita, la mia inquietudine, la profondità degli affetti, il lutto, or sono quindici anni, per la perdita precoce, tragica, della mia adorata figlia Fanny.
Quale tra le poesie contenute ne “Il riverbero delle parole” sente più cara o rispecchia maggiormente il suo Io poetico e perché?
Sento tutte le mie poesie come mie creature, mie figlie, ogni silloge (sedici dal 1998 a oggi) rappresenta le varie fasi della mia vita, a tutte sono egualmente legato, anche perché in trent’anni di produzione poetica, esprimo un diario innanzitutto dell’anima. Le radici, i luoghi, la natura, gli affetti entrano nel mio percorso poetico, ma su tutto, il vento, che domina il nostro vivere, come il mare. Credo che la sostanza del mio fare sia un invito a vivere con gioia le cose belle, in contrapposizione dialettica al dolore, al dramma della morte, che comunque sono il vero motore dell’esistenza e che inducono alla creatività e alla libertà. Sicuramente nelle mie poesie vi si legge un iter di maturazione anche verso tematiche storiche, sociali, religiose, ambientali, non solo, quindi, legato a ispirazioni introspettive e intimistiche, pur sempre universali. Ne “Il riverbero delle parole, l’ultima poesia “Per i miei settanta…” è un bilancio esistenziale e rappresenta il mio attuale pensiero, il mio Io poetico.
Quali sono i suoi punti di riferimento letterari? Quali autori l’hanno più influenzata a livello stilistico e perché?
In primo luogo i Poemi omerici, quindi i Lirici greci, Catullo, Orazio per arrivare a Foscolo, Garcìa Lorca e Ungaretti. Anche, per la prosa, sempre a livello stilistico, Malaparte, Hemingway e de Saint-Exupéry. Il perché è legato proprio ai molteplici riverberi emotivi che questi classici universali mi hanno suscitato fin da ragazzo.
“Le vie dell’immagine” è un mix di fotografie analogiche e digitali. Crede che l’avvento del digitale abbia portato solo miglioramenti alla fotografia oppure rimpiange la tecnica analogica?
Come ho detto, a proposito della prima domanda, fui condizionato a passare al digitale nel 2009: costretto perché il miglior laboratorio della mia città, a cui mi ero quasi sempre rivolto per lo sviluppo delle diapositive, per il crollo della domanda, non rinnovava più con frequenza gli acidi per il necessario processo chimico, con risultati a dir poco disastrosi. L’ultima fase, quella dello sviluppo, come è noto, è infatti fondamentale per una diapositiva e senz’appello. In più diventava sempre più difficile acquistare rollini di diapositive Kodak, la pellicola professionale che quasi sempre avevo usato. La diapositiva per me rappresentava un prodotto finito già allo scatto, non si poteva sbagliare, e già ne conoscevo il risultato, buono non solo per il reportage, ma soprattutto per la fotografia creativa. Con l’apparecchio digitale, fin dall’inizio, con opportuni accorgimenti e tarature a priori, fotografando per lo più con priorità dei diaframmi, ho ottenuto ottimi risultati, senza mai arrivare al “photoshop”, se non per regolare, quando necessario, la luminosità. Pur rimpiangendo la fotografia analogica, per una mia personale modalità di intendere la resa fotografica, basata sullo studio impressionistico della luce, finalizzata anche alla mia ricerca sui quattro elementi, il digitale, specie nel reportage e nelle precarie condizioni di luce, presenta innumerevoli vantaggi, che non sto qui a dire tanto sono noti, su tutti quello di avere a disposizione un numero incredibile di scatti, pur fotografando io sempre in formato RAW, e nella stessa macchina molteplici pellicole, nonché quello di non dipendere dalla temperatura dell’ambiente circostante, nemico giurato delle diapositive: l’eccessivo freddo e il troppo caldo, tanto da essere sempre costretti alla borsa termica. Infine la fotografia digitale ha aperto da più di un decennio a quella concettuale, surreale, rielaborata a tavolino, per esempio quella del grande fotografo francese Michel Kirch, arte questa che dà risultati eccellenti, ma che non ha più niente a che fare col mio modo di intendere la fotografia, sempre soggettiva, ma al confronto, senz’altro più realistica.
Giacomo Garzya (Intervista inserita in blog.dantebus.com il 6 marzo 2023)
GIACOMO GARZYA – IMMAGINI E PAROLE: DUE PERCORSI PARALLELI
Avendo voluto fare un bilancio della mia vita a 70 anni, come fotografo, ho pensato di pubblicare, una retrospettiva, da completare in un prossimo futuro, un’estrema sintesi dei miei reportage di più di trent’anni, a partire dalla fine degli anni Ottanta, in due volumi con più di 360 foto. Il primo “Le vie dell’immagine”, dal carattere più generale, il secondo, di cui si parla ora, invece, monotematico “Frammenti di Mediterraneo”, tale da rappresentare il mio concetto di Mediterraneo, il mare di Fernand Braudel, così importante nella mia ispirazione poetica, a partire dal mio primo libro di poesie “Solaria” del 1998. Ma è proprio questo mio primo libro a far riemergere una vocazione giovanile, quella di esprimermi attraverso la voce della poesia, e i luoghi da me visitati, quelli amati e più volte rivisitati, da immagini si trasformarono in parole, quindi l’uso di due linguaggi, due percorsi paralleli. Va subito detto che in “Frammenti di Mediterraneo”, i luoghi nelle foto sono innanzitutto emozioni, le foto rappresentando, spesso con le poesie scritte lì seduta stante, un diario dell’anima, esprimendosi così insieme, con due codici diversi, gli aspetti emozionali del momento, che variano col mutare della luce, dei colori, dei grigi della nostra vita. Il tutto fa parte di un viaggio, metafora della vita, dove vi è una ricerca del bello, il ritorno alle radici, un viaggio inteso non da turisti, ma da viaggiatori, alla Alain De Botton, già memore io del passato, attraverso i resoconti appassionanti dei Montaigne, Charles de Brosses, Montesquieu, Stendhal, Goethe, fino alle riflessioni letterarie, artistiche e politiche nei Reisbilder di Heinrich Heine. Fotografia e poesia, poesia e fotografia, quindi un tutt’uno inscindibile, in cui si riversano la mia esperienza, la mia inquietudine esistenziale, gli affetti per la terra di origine, la mia formazione storicista, le letture dei Poeti greci e del Kavafis di “Itaca”. L’immediatezza, poi, con cui ho scritto molte poesie è simile allo scatto subitaneo di certe foto, per non perdere il bello in quell’attimo, che si para dinanzi e che può svanire in qualche minuto secondo. Ne “I frammenti di Mediterraneo” non tralascio la quintessenza della nostra civiltà, il mare, esso traspare ovunque, è l’ anima in tante foto, come la macchia mediterranea o le colonne dei templi greci. Infine, la mia fotografia vuole essere anche una ricerca del bello inteso alla Oscar Wilde, una risposta quindi al mondo in cui viviamo, dove certi valori si vanno dimenticando, oggi il regno del Kitsch, del cattivo gusto studiato da Gillo Dorfles o del Trash più volgare. Sul piano stilistico e artistico, un debito l’ho, in particolare, col Mimmo Jodice del Mediterraneo.
Sul mio percorso fotografico (foto di paesaggi marini, urbani e rurali), sul passaggio al digitale, ecc., leggere l’intervista fattami dalla Dantebus il 6 marzo 2023 per il suo blog e in dettaglio in questo sito web ( “Photo gallery”).
Trieste, 25 gennaio 2024
Giacomo Garzya
(Articolo che ho scritto per il blog.dantebus.com sul mio libro “Frammenti di Mediterraneo”, https:///blog.dantebus.com/2024/01/immagini-e-parole-due-percorsi-paralleli-giacomo-garzya-parla-del-suo-frammenti-di-mediterraneo/ )
A REFLECTION ON MY ACTIVITY AS A POET AND PHOTOGRAPHER
Poetry has always been an important part of my life, representing a continuous existential search: my restlessness, history as memory, loves, places, nature, the wind and the sea that drives all things, my Mediterranean and Nordic roots, up to the mourning for the tragic death of my daughter Fanny. Intensive reading of the classics had a great impact on my early education, especially the Homeric Poems, Sappho and the other Lyrics (in the translation by Salvatore Quasimodo), Catullus, Horace, Foscolo, Cavafy, Garcìa Lorca, Ungaretti, Dostoevsky, Hemingway, de Saint-Exupéry, Malaparte and Fallaci. English: As for style, as Giuseppe Galasso already noted in 2001 in the preface to my second book of poems “Maree”, “Garzya’s verses are… light, they flow with the naturalness of spontaneity that dictated them even when they are full… of famous names, of historical and literary topoi”. In fact, style has a specific weight in writing: Francesco De Sanctis said that “form is the thing”, but the indispensable use of the main rules of rhetoric – poetry is not prose – and the evocative power of words, linked to personal lexical baggage (the Greek word “Logos”, therefore, in its two meanings of word and thought, many words many thoughts), are not enough by themselves, without a creative inspiration made of emotions, the “lyrical I”, the personal history of yesterday and today, as long as it becomes universal. Therefore form and content, according to the Leopardian lesson that defined Vincenzo Monti as “poet of the ear and of the imagination, but not of the heart”. The immediacy, then, with which I have written many poems does not mean spontaneous writing, but sedimented thoughts, which come out when they must, when they are mature. My thirty-year poetic journey, if we do not consider the youthful years, wants to cultivate first of all the “lyrical I”, to be an introspection not intimate, but universal, wants to be autobiographical, a “novel of life”, in the style of Umberto Saba, a diary of the soul, not only mine, but of all the souls led to think, to reflect on the meaning of their existence, in its flow between past experiences and new emotions; finally, my poetry, from the beginning, has also wanted to be an antidote against the oblivion of time, preserving the values of our civilization, always keeping alive the affections, which allow us to survive in a world often hostile, not always or not really friendly. Since I was a child, my father Antonio – a polyglot (he spoke eight languages fluently), an eminent classical philologist and Byzantine scholar, professor of Greek literature at the Federico II University of Naples, as well as of medieval Greek at the Sorbonne and “associé étranger de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres” – my first teacher, instilled in me the value of universality and when I write I question myself, thinking of others. Surely in my poems, over the years, you can also read a process of maturation towards historical, social, religious, environmental themes, not only, therefore, linked to introspective and intimate inspirations, which are also a consistent part of my production. My poetry, finally, defined by some critics, “neo-humanistic”, often experienced in the first instance with loved ones, is an invitation to live beautiful things with joy, forcefully reiterating my quote from Oscar Wilde, in my first poetic anthology of 1998, “Solaria”: “those who find beautiful meanings in beautiful things, are cultured people. For these there is hope”. Beauty, therefore, not an end in itself but historicized, which makes oneself and others feel at peace, in dialectical opposition to pain, to the drama of death. Pain, doubt, oppression, however, remain the true engines of existence, harbingers of creativity, freedom, faith, even that of Spinoza’s “Deus sive Natura”, who had deified the entire Cosmos, according to Hegel’s interpretation.
As for my photography, it was born in childhood as a family photographer on summer trips, when with a fixed focus camera, without any pretension, I took pictures while traveling with my family; it was in those years that visiting art museums in various European capitals, I acquired a personal taste, useful for framing photos, from there also the ability to observe landscapes, urban and otherwise, as well as the various types of people encountered. My photography became professional in a few years, after switching to reflex and slides in 1981, with more than satisfactory results, especially when I started taking pictures with Zeiss lenses. This analog path ended in 2009, the year in which I was forced to go digital, firstly because the photographic laboratories, due to the collapse in demand, no longer frequently renewed the acids for developing slides, with disastrous results to say the least, secondly because it was becoming increasingly difficult to find films, their production having decreased worldwide. My photography, then, was first and foremost based on the impressionistic study of light: for some critics, a metaphysics of light aimed at the search for a primordial nature in its fluctuating elements, in an incessant pànta rheî, therefore a study of the four elements, based on the reading of the Greeks, in particular the fragments of Empedocles, which led me to photograph clouds, red sunsets, sea waves, rocks, sunrises on Vesuvius, according to a criterion that would lead to overcoming the purely emotional moment that had wanted them. Water, the primordial element, the earth in continuous transformation, the indomitable fire that stuns, dazzles, that gives light to the scene and heat to our existence, to our imagination, therefore also a chromatic-emotional relationship between elements that interact with each other: Fire-Sun-Light-Energy-Heat-Color-Clouds-Water-Wind-Rock. This research, which lasted many years, partly flowed, as far as the element Water is concerned, into a personal exhibition of mine in 2006 at the Italian Institute for Philosophical Studies “The sea that cannot be seen”. The monographic study on the four elements, only because of my inability to find sponsors, did not materialize, about twenty years ago, in a personal exhibition in Milan and in a volume published in Milan, the Italian capital of photography. Well, these, in addition to the photographic reportages of my travels, are the recurring themes in my photography. As for my analog photography, the slide for me had represented a finished product already at the shot, you could not go wrong, and I already knew the result, good not only for reportage, but above all for creative photography. Even with the digital camera, in reality, with appropriate adjustments and a priori calibrations, photographing mostly with aperture priority, I obtained excellent results, without ever having to resort to “photoshop”, except to adjust, when necessary, the brightness. Although I miss analog photography, for my personal way of understanding photographic rendering, digital photography, especially in reportage and in precarious light conditions, has countless advantages, which I won’t go into here since they are well known, above all that of having an almost unlimited number of shots available and, in the same camera, multiple films, as well as that of not depending on the temperature of the surrounding environment, sworn enemy of slides. Finally, digital photography has opened up a type of art that is more conceptual, surreal, reworked at the table, but which no longer has anything to do with my way of understanding photography, always subjective, but in comparison, certainly more realistic.Today I am not yet, at the age of 72, as Cesare Pavese said at the age of forty, “at the end of the candle”, but I live this phase of my existence with great pleasure, and, after having overcome rather difficult moments in terms of health, my days have always been full, indeed I must say that I have never worked so much in my life, in the sense that I have read a lot, I have photographed a lot and my poems, written from the pandemic period to today, have been permeated not infrequently, by a more historicist vision and by a “strong thought”, to be made to prevail over the so-called “weak thought”. I have had this idealistic legacy from my historical studies, from my Masters Giuseppe Galasso and Mario del Treppo and in the first instance from my father, also a Crocean. I think I have grasped the philosophy, that is, that it is essential to give a precise direction to one’s work, eliminating, at the cost of losing out, every compromise, every imposition from someone above us or worse from ourselves, when we feel forced to do something we don’t like. My life has gone like this: I have always, or almost always, done, to the detriment of my career, what I most desired, first of all traveling – it is not a negative fact as Pavese claimed when he said that “traveling is brutality”, but on the contrary it allows you to live more than once – secondly being able to fix my emotions by photographing and writing, in order to relive the beautiful sides of life at their best, fully.
Trieste, November 28, 2024
Giacomo Garzya
DANTEBUS BLOG. AUTHOR INTERVIEWS – GIACOMO GARZYA
“The reverberation of words” and “The ways of the image” are his latest artistic efforts. The first is a poetic sylloge while the second is a photographic book, in fact you define yourself as a “poet and photographer”. When did you first encounter these two arts? Is there one of the two that you consider more indispensable in her life? If so, which one?
The first approach to photography dates back to my childhood, when I photographed traveling with my family with a fixed focus device, without any pretensions; it was in those years that by visiting art museums in the various European capitals, I acquired a personal taste, useful for framing photos. In 1981 I switched to reflex and slides, with more than satisfactory results, also due to the quality of my professional CONTAX camera and ZEISS lenses. This analog journey ends in 2009, the year I was forced into digital. Poetry too was born early, in parallel with the intensive reading of the classics, but stopped around the age of twenty, the interest in my historical studies prevailing, to resume from 1993 until today. The ability to observe as a photographer of landscapes, both urban and otherwise, as well as of the people I met, had a lot of influence in the elaboration of my poetry, beyond the already important and essential cultural and interior elements and, according to the critics, both photography what poetry have always gone hand in hand, interconnecting, until the last five years when poetry clearly prevailed. My photography is therefore complementary to my poetry, in which my life experience, my restlessness, the depth of affections, the mourning, fifteen years ago, for the early, tragic loss of my beloved daughter Fanny are poured. .
Which of the poems contained in “The reverberation of words” do you feel dearest or most reflects your poetic ego and why?
I feel all my poems as my creatures, my daughters, each sylloge (sixteen from 1998 to today) represents the various phases of my life, I am equally attached to all of them, also because in thirty years of poetic production, I express a diary above all of ‘soul. Roots, places, nature, affections enter my poetic journey, but above all, the wind, which dominates our lives, like the sea. I believe that the substance of my work is an invitation to live beautiful things with joy, in dialectical opposition to pain, to the drama of death, which in any case are the real engine of existence and which lead to creativity and freedom. Surely in my poems we can read a process of maturation also towards historical, social, religious, environmental themes, not only, therefore, linked to introspective and intimate inspirations, still universal. In “The reverberation of words, the last poem “For my seventy…” is an existential balance and represents my current thought, my poetic ego.
What are your literary reference points? Which authors have most influenced you stylistically and why?
First the Homeric Poems, then the Greek Lyricist, Catullus, Horace to get to Foscolo, Garcìa Lorca and Ungaretti. Also, for prose, always on a stylistic level, Malaparte, Hemingway and de Saint-Exupéry. The reason is linked precisely to the many emotional reverberations that these universal classics have aroused in me since I was a boy. “Le vie dell’immagine” is a mix of analogue and digital photographs. Do you believe that the advent of digital has only brought improvements to photography or do you regret the analog technique? As I said, regarding the first question, I was conditioned to switch to digital in 2009: forced because the best laboratory in my city, to which I had almost always turned to for the development of the slides, due to the collapse in demand, no longer renewed frequently the acids for the necessary chemical process, with disastrous results to say the least. The last phase, that of development, as is known, is in fact fundamental for a slide and without appeal. In addition, it became more and more difficult to buy rolls of Kodak slides, the professional film that I had almost always used. For me, the slide represented a finished product right from the click, you couldn’t go wrong, and I already knew the result, good not only for reportage, but above all for creative photography. With the digital camera, right from the beginning, with appropriate expedients and a priori calibrations, photographing mostly with aperture priority, I have obtained excellent results, without ever reaching the “photoshop”, except to adjust, when necessary, when necessary, the brightness. While regretting analog photography, due to my personal way of understanding photographic rendering, based on the impressionistic study of light, also aimed at my research on the four elements, digital photography, especially in reportage and in precarious light conditions, has countless advantages, I’m not here to say so much they are known, above all that of having an incredible number of shots available, even though I always photograph in RAW format, and in the same camera multiple films, as well as that of not depending on the temperature of the surrounding environment, sworn enemy of slides: excessive cold and too hot, so as to always be forced to the thermal bag. Finally, for more than a decade, digital photography has opened up to the conceptual, surreal, reworked at the table, for example that of the great French photographer Michel Kirch, an art that gives excellent results, but which no longer has anything to do with my way to understand photography, always subjective, but in comparison, certainly more realistic.
(Interview posted on blog.dantebus.com on March 6, 2023)
GIACOMO GARZYA – IMAGES AND WORDS: TWO PARALLEL PATHS
Having wanted to take stock of my life at 70 years old, as a photographer, I thought of publishing a retrospective, to be completed in the near future, an extreme summary of my reportages of more than thirty years, starting from the end of the Eighty, in two volumes with more than 360 photos. The first “The streets of the image”, with a more general character, the second, which is now being discussed, is monothematic “Fragments of the Mediterranean”, such as to represent my concept of the Mediterranean, the sea of Fernand Braudel, so important in my poetic inspiration, starting from my first book of poems “Solaria” in 1998. But it is precisely this first book of mine that brings out a youthful vocation, that of expressing myself through the voice of poetry, and the places I visited, those loved and revisited many times, transformed from images into words, therefore the use of two languages, two parallel paths. It must be said immediately that in “Fragments of the Mediterranean”, the places in the photos are first and foremost emotions, the photos representing, often with the poems written there on the spot, a diary of the soul, thus expressing the emotional aspects together, with two different codes of the moment, which vary with the changing light, colors and grays of our life. It is all part of a journey, a metaphor for life, where there is a search for beauty, a return to the roots, a journey intended not by tourists, but by travellers, à la Alain De Botton, already mindful of the past, through the reports exciting works by Montaigne, Charles de Brosses, Montesquieu, Stendhal, Goethe, up to the literary, artistic and political reflections in Heinrich Heine’s Reisbilder. Photography and poetry, poetry and photography, therefore an inseparable whole, in which my experience, my existential restlessness, my affection for my land of origin, my historicist training, my readings of the Greek Poets and of Kavafis of “Ithaca”. The immediacy, then, with which I have written many poems is similar to the sudden taking of certain photos, so as not to lose the beauty in that moment, which appears before us and which can vanish in a few minutes. In “The fragments of the Mediterranean” I do not leave out the quintessence of our civilization, the sea, it shines through everywhere, it is the soul in many photos, like the Mediterranean scrub or the columns of Greek temples. Finally, my photography also wants to be a search for beauty as understood by Oscar Wilde, therefore a response to the world in which we live, where certain values are being forgotten, today the reign of Kitsch, of bad taste studied by Gillo Dorfles or of the most Trash vulgar. On a stylistic and artistic level, I owe a debt, in particular, to Mimmo Jodice of the Mediterranean.
On my photographic journey (photos of marine, urban and rural landscapes), on the transition to digital, etc., read the interview given to me by Dantebus on 6 March 2023 for its blog and in detail on my website: https:// www. maree2001.it (“Photo gallery”).
Trieste, 25 January 2024
Giacomo Garzya
(Article I wrote for blog.dantebus.com about my book “Frammenti di Mediterraneo”, https:///blog.dantebus.com/2024/01/immagini-e-parole-due-percorsi-paralleli-giacomo-garzya-parla-del-suo-frammenti-di-mediterraneo/ )
UNE RÉFLEXION SUR MON ACTIVITÉ DE POÈTE ET PHOTOGRAPHE
La poésie a toujours été une partie importante de ma vie, représentant une recherche existentielle continue : mon inquiétude, l’histoire comme mémoire, les amours, les lieux, la nature, le vent et la mer, moteur de toutes choses, mes racines méditerranéennes et nordiques, jusqu’à le deuil de la mort tragique de ma fille Fanny. Dans mon éducation de jeunesse, les lectures intensives des classiques ont eu une grande importance, en particulier les Poèmes homériques, Sappho et les autres paroliers (dans la traduction de Salvatore Quasimodo), Catulle, Horace, Foscolo, Kavàfis, Garcìa Lorca, Ungaretti. , Dostoïevski, Hemingway, de Saint-Exupéry, Malaparte et Fallaci. Quant au style, comme le notait déjà en 2001 Giuseppe Galasso dans la préface de mon deuxième recueil de poèmes “Maree”, “les vers de Garzya sont… légers, ils coulent avec le naturel de la spontanéité qui les dictait même lorsqu’ils regorgent… de noms célèbres, de sujets historiques et littéraires”. Le style, en effet, a un poids spécifique dans l’écriture : Francesco De Sanctis disait que « la forme est la chose », mais l’utilisation indispensable des principales règles de la rhétorique – la poésie n’est pas de la prose – et le pouvoir évocateur des mots, lié à le bagage lexical personnel (le mot grec « Logos », donc, dans ses deux sens de mot et de pensée, beaucoup de mots, beaucoup de pensées), ne suffit pas à lui seul, sans une inspiration créatrice faite d’émotions, le « moi lyrique », l’histoire personnelle d’hier et d’aujourd’hui, pour peu qu’il soit rendu universel. Donc forme et contenu, selon la leçon de Leopardi qui définissait Vincenzo Monti comme un « poète de l’oreille et de l’imagination, mais pas du cœur ». L’immédiateté avec laquelle j’ai écrit de nombreux poèmes ne signifie donc pas une écriture spontanée, mais des pensées sédimentées, qui surgissent quand elles le doivent, quand elles sont mûres. Mon parcours poétique de trente ans, si l’on ne considère pas mes années de jeunesse, vise avant tout à cultiver le « moi lyrique », à être une introspection non intime, mais plutôt universelle, il se veut autobiographique, un « roman de vie”, à la Umberto Saba, un journal de l’âme, pas seulement la mienne, mais de toutes les âmes amenées à penser, à réfléchir sur le sens de leur existence, dans son flux entre expériences passées et émotions nouvelles ; enfin, dès le début, ma poésie s’est aussi voulue être un antidote contre l’oubli du temps, préservant les valeurs de notre civilisation, gardant toujours vivantes les affections, qui nous permettent de survivre dans un monde souvent hostile, pas toujours ou pas vraiment ami. Depuis mon enfance, mon père Antonio – polyglotte (il parlait couramment huit langues), éminent philologue classique et byzantin, professeur de littérature grecque à l’Université Federico II de Naples, ainsi que de grec médiéval à la Sorbonne et ” associé étranger de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres” – mon premier Maître, m’a inculqué la valeur de l’universalité et quand j’écris je me remets en question, en pensant aux autres. Certes, dans mes poèmes, au fil des années, on peut aussi lire un processus de maturation vers des thèmes historiques, sociaux, religieux, environnementaux, non seulement donc liés à des inspirations introspectives et intimes, qui constituent également une part substantielle de ma production. Enfin, ma poésie, définie par certains critiques comme « néohumaniste », souvent vécue en premier lieu avec les proches, est une invitation à vivre les belles choses avec joie, réitérant avec force ma citation d’Oscar Wilde, dans ma première anthologie poétique de 1998, « Solaria” : “Ceux qui trouvent de belles significations dans les belles choses sont des gens cultivés. Pour eux, il y a de l’espoir”. La beauté n’est donc pas une fin en soi mais une historicité, qui fait que soi-même et les autres se sentent en paix, en contraste dialectique avec la douleur, avec le drame de la mort. La douleur, le doute, l’oppression restent encore les véritables moteurs de l’existence, annonciateurs de la créativité, de la liberté, de la foi, voire de celle du « Deus sive Natura » de Spinoza, qui avait déifié le Cosmos tout entier, selon l’interprétation de Hegel.
Quant à ma photographie, elle a commencé dans mon enfance en tant que photographe de famille lors de voyages d’été, lorsqu’avec un appareil photo à mise au point fixe, sans aucune prétention, je photographiais en voyage avec ma famille ; c’est dans ces années-là qu’en visitant les musées d’art de différentes capitales européennes, j’ai acquis un goût personnel, utile pour le cadrage des photos, de là aussi la capacité d’observer les paysages, urbains ou non, ainsi que les différents types de personnes rencontrées. Ma photographie est devenue professionnelle en quelques années, après être passée au reflex et aux diapositives en 1981, avec des résultats plus que satisfaisants, notamment lorsque j’ai commencé à photographier avec des objectifs Zeiss. Ce voyage analogique s’est terminé en 2009, année où j’ai été contraint de passer au numérique, d’abord parce que les laboratoires photographiques, en raison de l’effondrement de la demande, ne renouvelaient plus fréquemment les acides pour le développement des diapositives, avec des résultats qui n’étaient tout simplement pas très désastreux, d’autre part parce qu’il devenait de plus en plus difficile de trouver des films, leur production dans le monde ayant diminué. Ma photographie reposait donc avant tout sur l’étude impressionniste de la lumière : pour certains critiques, une métaphysique de la lumière visant à rechercher une nature primordiale dans ses éléments fluctuants, dans un panta rheî incessant, donc une étude sur les quatre éléments. , basé sur la lecture des Grecs, notamment des fragments d’Empédocle, qui m’a amené à photographier les nuages, les couchers de soleil rouges, les vagues de la mer, les rochers, les levers de soleil sur le Vésuve, selon un critère qui conduirait à dépasser l’instant purement émotionnel qui les avait voulus. L’eau, l’élément primordial, la terre en transformation continue, le feu indomptable qui étourdit, éblouit, qui donne de la lumière à la scène et de la chaleur à notre existence, à notre imaginaire, donc aussi une relation chromatique-émotionnelle entre les éléments qui interagissent les uns avec les autres. : Feu-Soleil-Lumière-Énergie-Chaleur-Couleur-Nuages-Eau-Vent-Rocher. Cette recherche, qui a duré de nombreuses années, a partiellement convergé, en ce qui concerne l’élément Eau, dans une de mes expositions personnelles en 2006 à l’Institut italien d’études philosophiques “La mer qu’on ne peut pas voir”. L’étude monographique sur les quatre éléments, uniquement à cause de mon incapacité à trouver des sponsors, ne s’est pas concrétisée, il y a une vingtaine d’années, dans une exposition personnelle à Milan et dans un volume publié à nouveau à Milan, la capitale italienne de la photographie. Eh bien, ce sont, en plus des reportages photographiques de mes voyages, les thèmes récurrents de ma photographie. Quant à ma photographie argentique, la diapositive représentait pour moi un produit fini dès le moment de la prise de vue, on ne pouvait pas se tromper et je connaissais déjà le résultat, bon non seulement pour le reportage, mais surtout pour la photographie créative. Même avec l’appareil photo numérique, en réalité, avec des précautions et des calibrages appropriés a priori, en photographiant majoritairement avec priorité à l’ouverture, j’ai obtenu d’excellents résultats, sans jamais passer à “photoshop”, sauf pour régler la luminosité lorsque cela était nécessaire. Si la photographie argentique me manque, du fait de ma manière personnelle d’appréhender le rendu photographique, la photographie numérique, notamment en reportage et dans des conditions de lumière précaires, présente d’innombrables avantages, que je ne dirai pas ici car ils sont bien connus, notamment celui d’avoir un nombre presque illimité de plans disponibles et, dans la même caméra, plusieurs films, ainsi que le fait de ne pas dépendre de la température du milieu environnant, ennemi juré des diapositives. Enfin, la photographie numérique a ouvert la voie à un art plus conceptuel, surréaliste, retravaillé à table, mais qui n’a plus rien à voir avec ma façon d’appréhender la photographie, toujours subjective, mais certes plus réaliste en comparaison.
Aujourd’hui, je ne suis pas encore, à seulement 72 ans, comme le disait Cesare Pavese à quarante ans, “au bout de la bougie”, mais je vis cette phase de mon existence avec beaucoup de plaisir et, après avoir surmonté des moments assez difficiles en termes de santé, mes journées ont toujours été bien remplies, en effet je dois dire que je n’ai jamais autant travaillé de ma vie, dans le sens où j’ai beaucoup lu, j’ai beaucoup photographié et mes poèmes, écrits à partir du période de la pandémie à aujourd’hui, ont souvent été imprégnées, d’une vision plus historiciste et de une « pensée forte », pour prévaloir sur la pensée dite « faible ».
Cet héritage idéaliste m’est venu de mes études d’histoire, de mes professeurs Giuseppe Galasso et Mario del Treppo et, en premier lieu, de mon père, également crocéen. Je pense avoir compris la philosophie, c’est-à-dire qu’il est fondamental de donner une direction précise à son travail, en éliminant, au prix de perdre, tout compromis, toute imposition de quelqu’un au-dessus de nous ou pire de nous-mêmes, lorsque nous nous sentons obligé de faire quelque chose que nous n’aimons pas. Ma vie s’est déroulée ainsi : j’ai toujours, ou presque toujours, fait, au détriment de ma carrière professionnelle, ce que je désirais le plus, voyager en premier lieu – ce n’est pas un fait négatif comme le prétendait Pavese lorsqu’il disait que “voyager est une brutalité”. “, mais au contraire cela permet de vivre plusieurs fois – d’autre part de pouvoir capter mes émotions en photographiant et en écrivant, afin de pouvoir revivre les beaux côtés de la vie de la meilleure des manières, pleinement.
Trieste, le 28 novembre 2024
Giacomo Garzya
BLOG.DANTEBUS.COM : INTERVIEWS D’AUTEURS – GIACOMO GARZYA
« La réverbération des mots » et « Les chemins de l’image » sont ses dernières œuvres artistiques. Le premier est une anthologie poétique tandis que le second est un livre photographique, en effet vous vous définissez comme « poète et photographe ». Quand avez-vous eu votre première rencontre avec ces deux arts ? Y a-t-il un des deux que vous considérez comme le plus indispensable dans votre vie ? Si oui, lequel ?
Ma première approche de la photographie remonte à mon enfance, lorsqu’avec un appareil photo à focale fixe, sans aucun prétexte, je photographiais en voyage avec ma famille ; c’est au cours de ces années qu’en visitant les musées d’art de diverses capitales européennes, j’ai acquis un goût personnel, utile pour le cadrage des photos. En 1981, j’ai fait la transition vers les appareils photo reflex et les diapositives, avec des résultats plus que satisfaisants, également pour la qualité de mon appareil photo professionnel CONTAX et des objectifs ZEISS. Ce voyage analogique se termine en 2009, année où j’ai été contraint de passer au numérique. La poésie est également née très tôt, parallèlement à la lecture intensive des classiques, mais elle s’est arrêtée vers l’âge de vingt ans, lorsque mon intérêt pour mes études historiques a prévalu, pour reprendre à partir de 1993 jusqu’à aujourd’hui. La capacité d’observer les paysages, urbains et autres, ainsi que les personnes que j’ai rencontrées en tant que photographe, ont eu une grande influence dans le développement de ma poésie, au-delà des éléments culturels et intérieurs déjà importants et essentiels et, selon les critiques, la photographie et la poésie ont toujours marché de pair, s’interconnectant, jusqu’aux cinq dernières années où la poésie a clairement prévalu. Ma photographie est donc complémentaire de ma poésie, dans laquelle se déversent mon expérience de vie, mon inquiétude, la profondeur de l’affection, le deuil, il y a quinze ans, pour la perte précoce et tragique de ma fille bien-aimée Fanny.
Lequel des poèmes contenus dans « La réverbération des mots » vous semble le plus cher ou reflète le plus votre moi poétique et pourquoi ?
Je ressens tous mes poèmes comme mes créatures, mes filles, chaque anthologie (seize de 1998 à aujourd’hui) représente les différentes phases de ma vie, je suis également attaché à toutes, aussi parce qu’en trente ans de production poétique, j’exprime une journal intime avant tout de l’âme. Les racines, les lieux, la nature, les affections entrent dans mon voyage poétique, mais surtout le vent, qui domine nos vies, comme la mer. Je crois que la substance de mon travail est une invitation à vivre les belles choses avec joie, en opposition dialectique à la douleur, au drame de la mort, qui sont en tout cas le véritable moteur de l’existence et qui conduisent à la créativité et à la liberté. Certes, dans mes poèmes, on peut lire un processus de maturation également vers des thèmes historiques, sociaux, religieux et environnementaux, non seulement donc liés à des inspirations introspectives et intimes, qui sont encore universelles. Dans “La réverbération des mots”, le dernier poème “Pour mes soixante-dix…” est un bilan existentiel et représente mes pensées actuelles, mon moi poétique.
Quelles sont vos références littéraires ? Quels auteurs vous ont le plus influencé sur le plan stylistique et pourquoi ?
D’abord les Poèmes homériques, puis les Paroles grecques, Catulle, Horace pour arriver à Foscolo, Garcìa Lorca et Ungaretti. Aussi, pour la prose, toujours sur le plan stylistique, Malaparte, Hemingway et de Saint-Exupéry. La raison est liée précisément aux multiples réverbérations émotionnelles que ces classiques universels suscitent en moi depuis que je suis enfant.
« Les chemins de l’image » est un mélange de photographies analogiques et numériques. Pensez-vous que l’avènement du numérique n’a apporté que des améliorations à la photographie ou la technique analogique vous manque-t-elle ?
Comme je l’ai dit, concernant la première question, j’ai été conditionné à passer au numérique en 2009 : forcé car le meilleur laboratoire de ma ville, vers lequel je m’étais presque toujours tourné pour le développement des diapositives, en raison de l’effondrement de la demande, non Les acides ne sont plus renouvelés fréquemment pour le processus chimique nécessaire, avec des résultats pour le moins désastreux. La dernière phase, celle du développement, comme on le sait, est en effet fondamentale pour un glissement et sans appel. De plus, il devenait de plus en plus difficile d’acheter des rouleaux de diapositives Kodak, le film professionnel que j’avais presque toujours utilisé. Pour moi, la diapositive représentait un produit fini dès le moment de la prise de vue, on ne pouvait pas se tromper et je connaissais déjà le résultat, bon non seulement pour le reportage, mais surtout pour la photographie créative. Avec l’appareil photo numérique, dès le début, avec des précautions et des calibrages appropriés a priori, en photographiant majoritairement avec priorité à l’ouverture, j’ai obtenu d’excellents résultats, sans jamais passer par “photoshop”, sauf pour régler, quand il le fallait, la luminosité. Si la photographie argentique me manque, en raison de ma manière personnelle d’appréhender le rendu photographique, basée sur l’étude impressionniste de la lumière, également orientée vers ma recherche sur les quatre éléments, le numérique, notamment en reportage et dans des conditions de lumière précaires, présente d’innombrables avantages, qui Je ne vais pas dire ici, ils sont connus, surtout celui d’avoir un nombre incroyable de clichés disponibles, même si je photographie toujours au format RAW, et plusieurs films dans le même appareil photo, ainsi que celui de ne pas dépendre du température du milieu environnant, ennemi juré de toboggans : froid excessif et trop chaud, à tel point qu’on est toujours obligé d’aller dans une glacière. Enfin, la photographie numérique s’est ouverte depuis plus d’une décennie à la photographie conceptuelle, surréaliste, retravaillée, par exemple celle du grand photographe français Michel Kirch, un art qui donne d’excellents résultats, mais qui n’a plus rien à voir avec ma voie. comprendre la photographie, toujours subjective, mais certainement plus réaliste en comparaison.
Giacomo Garzya
(Interview insérée dans blog.dantebus.com le 6 mars 2023)
GIACOMO GARZYA – IMAGES ET MOTS : DEUX CHEMINS PARALLÈLES
Ayant voulu faire le point sur ma vie à 70 ans, de photographe, j’ai pensé à publier une rétrospective, à achever prochainement, une synthèse extrême de mes reportages de plus de trente ans, à partir de la fin du Quatre-vingts, en deux volumes avec plus de 360 photos. Le premier “Les chemins de l’image”, avec un caractère plus général, le second, dont nous parlons maintenant, est monothématique “Fragments de la Méditerranée”, de manière à représenter ma conception de la Méditerranée, la mer de Fernand Braudel, si important dans mon inspiration poétique, depuis mon premier recueil de poèmes “Solaria” en 1998. Mais c’est précisément ce premier livre qui fait ressortir une vocation de jeunesse, celle de m’exprimer à travers la voix de la poésie, et les lieux que j’ai visités, ceux aimés et revisités plusieurs fois, à partir d’images qu’ils ont transformées en mots, donc l’usage de deux langages, deux chemins parallèles. Il faut dire tout de suite que dans “Fragments de Méditerranée”, les lieux dans les photos sont avant tout des émotions, les photos représentant, souvent avec les poèmes écrits sur place, un journal de l’âme, exprimant ainsi les aspects émotionnels ensemble, avec deux codes différents du moment, qui varient selon les changements de lumière, de couleurs, de gris de notre vie. Tout cela fait partie d’un voyage, d’une métaphore de la vie, où il y a une recherche de beauté, un retour aux sources, un voyage voulu non pas par des touristes, mais par des voyageurs, à la manière d’Alain De Botton, déjà attentif au passé, en passant par les récits d’œuvres passionnantes de Montaigne, Charles de Brosses, Montesquieu, Stendhal, Goethe, jusqu’aux réflexions littéraires, artistiques et politiques des Reisbilder d’Heinrich Heine. Photographie et poésie, poésie et photographie, donc un tout indissociable, dans lequel mon expérience, mon inquiétude existentielle, mon affection pour ma terre d’origine, ma formation historiciste, mes lectures des Poètes grecs et des Kavafis d'”Ithaque”. L’immédiateté avec laquelle j’ai écrit de nombreux poèmes est donc semblable à la prise soudaine de certaines photos, pour ne pas perdre la beauté de cet instant qui apparaît devant nous et qui peut disparaître en quelques minutes. Dans “Les fragments de Méditerranée” je ne laisse pas de côté la quintessence de notre civilisation, la mer, elle transparaît partout, elle est l’âme de nombreuses photos, comme le maquis méditerranéen ou les colonnes des temples grecs. Enfin, ma photographie se veut aussi une recherche de la beauté au sens d’Oscar Wilde, donc une réponse au monde dans lequel nous vivons, où certaines valeurs sont oubliées, aujourd’hui règne du kitsch, du mauvais goût étudié par Gillo. Dorfles ou des plus Trash vulgaires. Sur le plan stylistique et artistique, je dois notamment à Mimmo Jodice de la Méditerranée.
Sur mon parcours photographique (photos de paysages marins, urbains et ruraux), sur le passage au numérique, etc., lisez l’interview que m’a accordée Dantebus le 6 mars 2023 pour son blog et en détail sur ce site (“Galerie photo” ).
Trieste, le 25 janvier 2024
Giacomo Garzya
(Article que j’ai écrit pour blog.dantebus.com sur mon livre “Frammenti di Mediterraneo”, https:///blog.dantebus.com/2024/01/immagini-e-parole-due-percorsi-paralleli-giacomo-garzya- parle-de-ses-fragments-de-la-mediterranee/ )
GIACOMO GARZYA RIPROPONE IN QUESTA PAGINA UNA POESIA, SCRITTA L’8 LUGLIO 2009, PER SUA SORELLA CHIARA (16 GENNAIO 1955-8 APRILE 2019), NEL RICORDO INDIMENTICABILE DI QUINDICI ANNI DI VIAGGI INSIEME.
IL VIAGGIO DELLA VITA
A Chiara sorella
Tante sequenze i miei viaggi,
come foto su celluloide fissate
dagli occhi
attraverso finestrini in corsa
col vento.
Pianure, monti, pascoli, fiumi
da ponti di ferro, alberi quanti
alberi, casolari, case su case,
porti, confini di stato, pullulare
di volti,
attraverso finestrini di auto e
di treni in corsa.
Tante sequenze, quanti ricordi,
questi i viaggi con Chiara sorella,
fino ai vent’anni.
In lotta col tempo che passa,
senza tornare indietro,
il viaggio della vita continua,
e quell’anfora,
che viene dal mare, lì al centro
del quadro,
tutti li contiene i ricordi, proprio
tutti, recenti e remoti.
Né togliendone il tappo,
i mali del mondo e la morte
agli uomini darebbe Pandora,
bensì la vita, la gioia di vivere e
ancora vivere,
che solo il viaggio e gli affetti
possono dare,
anche quelli per sempre perduti.
Napoli, 8 luglio 2009
Giacomo Garzya
Poesia in Giacomo Garzya, “Il viaggio della vita”, Napoli 2010, M. D’Auria Editore, p. 74 e in Giacomo Garzya, “Poesie” (1998-2010), Napoli 2011, M. D’Auria Editore, p. 332
Alba dal Kastro di Kokala (Mani interno), 12 luglio 1995 (foto di Giacomo Garzya )
IL MIO “IO” LIRICO
Tu amico caro,
ti persi nelle nebbie del Connemara selvaggio e a tanti poeti sublime,
dai laghi blu pastello, tra brughiere
e torbiere color ruggine, agli antichi
confini in pietra a delimitare colline,
baie e spiagge sabbiose,
tu, forse nascosto per sempre al mondo,
in qualche porticciolo sicuro dal mare Oceano, non solo durante l’inverno
furioso,
sapevi leggere nei tuoi occhi l’anima scomoda che era in te, non corrotta,
non plasmabile, direi forte,
sapevi vivere nel silenzio le tenebre misteriose della morte, senz’affanno
la solitudine spesso cercata.
Non sempre amato, perché restio
al compromesso, nonostante le tue
paure, i lutti,
sapevi trovare felicità nelle piccole cose, riponendo nelle segrete del cuore
le chiavi del tuo aguzzo dolore: un mezzo inferno la vita, le ferite vero balsamo
per la tua poesia.
I tuoi principi, la fiducia che avevi
nel perseguirli senza timore, erano come radici profonde difficili da sradicare,
come era impossibile che dimenticassi
le tue emozioni, a volte vere mareggiate,
da cui nascevano sentimenti nuovi,
nuove storie, a stravolgere gli amari
colpi del destino.
Arrivederci amico caro.
Spero comunque di rivederti ancora
nei tenui colori del Connemara,
lì dove persi la tua anima,
ma non il tuo ricordo.
Trieste, 2 giugno 2023
Giacomo Garzya
LA PASSIONE DI CRISTO
a Serena Nono, per la sua opera
L’olio pigmentato, come santo, a intingere
sulle tue tele una Via della croce, un pathos
cosmico, universale, dove un Dio fattosi uomo
la morte vince per la nostra salvezza, le mani
giunte nel Getsèmani, strette tra loro per darsi
forza al pensiero delle frustate, dei chiodi nella
carne, al pensiero della Madre dolente, di Maria
a sostenere un corpo strappato alla croce.
Figure oranti le tue, in un silenzio assordante
e tu a rappresentare tante Pietà, fino a un Cristo
morto, disteso, supino, come già vidi in Mantegna,
tanto da sconvolgere l’anima, la tua, così rappresa
nel dolore, da strappare le lacrime.
Le mani a coprirti il volto,
come in Maria di Magdala, perché tu non giunga
a guardare l’insopportabile, davanti allo specchio
della storia, un Christus patiens, le mani giunte
in preghiera per noi.
Trieste, 8 febbraio 2024
Giacomo Garzya
BENEDETTO SEDICESIMO
Opalina la luce
del Cristo di Nazareth,
puro amore sulle tue labbra
fino all’ultimo respiro,
illumina il tuo volto cereo,
ieratico per la sacralità
della tua vita, le spoglie terrene
distese su un feretro in San
Pietro, come Gesù deposto
sulla pietra, nella Basilica
del Santo Sepolcro,
nella mia cara Gerusalemme.
Tu Benedetto di nome e di fatto,
che hai percorso la strada
della saggezza e della preghiera,
oggi incontri l’agape di Dio,
uno e trino, nel fraterno abbraccio
di Suo figlio, nostro Salvatore.
Tu, umile uomo di Chiesa,
dal carattere mite, cercasti
la via della verità con la ragione,
lo studio dei sacri testi e trovasti
l’amore infinito di Dio,
perché è partendo dal dubbio,
che impone la ragione,
che si arriva alla vera fede,
come nelle conversioni
di Blaise Pascal, Charles Péguy,
Alexis Carrel e di tanti altri
increduli.
Di alta scienza teologica,
fin dal Concilio ecumenico
Vaticano Secondo,
preconizzasti un ritorno
al Vangelo, denunciando,
come Agostino d’Ippona,
un mondo senza Dio, “senza
la nozione di bene e di male”,
le tue parole.
La tua vita tesa a riedificare
un millenario castello, a rischio
di rovina,
lottando contro l’incredulità
e la decristianizzazione
e ogni relativismo morale,
piaga d’un mondo occidentale
in declino, dove agnosticismo
e ateismo trionfano,
a rinnegare la spiritualità e la fede
cristiana, a favorire la rinascita
d’un paganesimo con nuovi idoli,
la volgarità dilagante, che offende
ogni bellezza.
Trieste, 5 gennaio 2023
Giacomo Garzya
NEL GIORNO DELLA MEMORIA
Ancora pochi anni e non ci sarà
più nessun testimone diretto
di quella feroce disumanità nazista
e invece sempre qualcuno che
negherà o ridimensionerà
la nefanda portata di quegli eventi,
un Olocausto costato la vita
a sei milioni di ebrei incolpevoli.
Nessuno può, non deve,
dimenticare ciò che fu la Shoah,
tantomeno il grado estremo
che la malvagità umana raggiunse,
anche in altri scenari tragici
della storia.
Non si può così dimenticare
il genocidio degli Armeni,
con le prime famigerate marce
della morte,
né si possono più tacere i milioni
di morti nei Gulag sovietici
e per fame in Ucraina,
i morti durante la Rivoluzione
culturale nella Cina di Mao,
le cataste di teschi nella Cambogia
dei feroci Khmer rossi di Pol Pot,
dove bastava portare occhiali
da intellettuale, per essere eliminati
all’istante,
le uccisioni di massa in Indonesia,
le vittime serbe degli Ustascia
di Ante Pavelic, cui si cavavano
gli occhi, da sembrare lumache
nelle ceste, Malaparte ne fu
testimone incredulo,
o i tanto dimenticati infoibati
istriani, fiumani, dalmati,
la decimazione dei cento popoli
Indios della foresta amazzonica,
la minoranza Tutsi massacrata
in Ruanda dagli Hutu,
l’eccidio in una notte a Srebrenica
di ottomila bosgniacchi, su ordine
di Ratko Mladić, sotto gli occhi
impotenti dei caschi blu,
l’annosa pulizia etnica nel martoriato
Darfur,
solo per ricordare i massacri più noti,
anch’essi, nel giorno della Shoah,
a memoria dell’umana ferocia.
Trieste, 27 gennaio 2023
Giacomo Garzya
[scritta pensando alla “Melancolia” dell’uomo d’oggi, l’anima dispersa in guerre infinite, spesso lontana da ogni Credo, da ogni Fede]
KHEIRA ACHIT - HENNI, UNA CARA AMICA ALGERINA
Traduzione in arabo classico di Kheira Achit- Henni
KHEIRA
a Kheira Achit-Henni
Nei tuoi colori immagino
la tua El Asnam.
Quando parli del Tell
i tuoi occhi di araba luccicano
e l’orgoglio per i tuoi fratelli
è forte: una tribù di sedici
che giocano e ridono tra loro
come solo tu sai fare.
Quando attraversasti
il Grand’Erg
mi parlasti degli uomini
del mistero
bianchi come il latte
biondi occhi azzurri,
mi parlasti dei Tuareg,
pensavo fossero come te
sono invece bruniti dal sole
ammantati di blu
per resistere al vento caldo
al freddo della notte stellata
quella del Sahara
che un giorno vorrei vedere
con te
come mi hai promesso.
Napoli, 15 febbraio 2004
Giacomo Garzya
[per la traduzione in arabo classico di Achit – Henni Kheira, vedere in G.Garzya, “Il mare di dentro”, Napoli 2005, M.D’Auria Editore, p.86 e in G.Garzya, “Poesie” (1998 – 2010), Napoli 2011, M.D’Auria Editore, p. 228]
Giacomo Garzya ritratto dalla moglie Paola Celentano, 25 dicembre 2022
Nella mia diciottesima raccolta di poesie “È la vita”, con prefazione di Alessandro Quasimodo, Villanova di Guidonia 2024, Aletti Editore, come fin dalla prima “Solaria” del 1998, sento non poche mie poesie, figlie dell’ “Io lirico”, un’autobiografia dell’anima, un’introspezione non intimista, bensì universale. Gli amori, gli affetti, i luoghi, la natura, le mie radici mediterranee e nordiche, sono delle costanti da quando penso in versi, ma ora, in questa silloge, vi si legge una maggiore sensibilità verso l’uomo nel suo divenire storico, morale, religioso, negli anni drammatici in cui viviamo. Credo che il mio poetare sia un invito, ancor più oggi, a vivere il bello dell’esistenza, l’opera d’arte, il trascendente, i soli doni atti a lenire il dolore, il pensiero della morte.
Giacomo Garzya
UNA DECIMA MUSA
Hai sempre cercato
di volare in alta quota
tra i cumulonembi
e non sei mai stata
un corèuta e, pur avendo
sempre ammirato le danze
all’unisono dei neri storni
d’estate, infiniti i disegni
nel cielo, un miracolo
della natura i loro volteggi,
hai sempre invocato il bello
da sola, neanche corifèo
a dirigere un coro, amando
tu la lirica di Saffo, lei divina
nell’arte delle parole, prima
su tutti i poeti, a cantare
l’amore eterno, tormentato,
sublime,
al punto che una sola sua
poesia valeva come mille
in giro per l’aria, così forte
l’istinto di correre tanto in alto,
mai negli stormi, sempre da sola.
Trieste, 16 aprile 2024
Giacomo Garzya
PLACE DES ABBESSES?
Dalla finestra della mia stanza,
un’ora prima dell’alba,
come a Place des Abbesses,
giusto vent’anni fa, il favoloso
mondo di Amelie, di Fanny,
gli stessi lampioni a dare
luccichio all’acciottolato bagnato,
qui come lì, platani spogli,
le foglie appassite in nome
dell’inverno,
lì, a pochi passi dalla piazza,
le piastrelle blu coi “Je t’aime”
in infinite lingue e dialetti,
un pellegrinaggio per tanti
innamorati, una vera Babele
moderna a scambiarsi baci
appassionati.
Poi con Fanny, un Pastis tutto
bohémienne
e i duecentoventidue gradini,
fino alla bianca accecante
Basilica, per rivivere
con Van Gogh,
la sua celebre “Vue de Paris
prise de Montmartre”,
per rendere poi omaggio
agli Utrillo,
ai Modigliani,
ai Toulouse-Lautrec,
e ai pittori “de La Bonne
Franquette”,
i pittori, i veri protagonisti
di questo più che mitico quartiere.
Trieste, 1° gennaio 2024
Giacomo Garzya